Se n’è andato con la stessa leggerezza con cui era venuto, con cui aveva corso, con cui aveva vissuto. Il comunicato stampa parla di un novantacinquenne deceduto al padiglione 12 dell’ospedale San Martino di Genova, ma non rivela la solitudine di questi ultimi giorni soffocati dal coronavirus e non racconta di una esistenza semplice e straordinaria ma ingiustamente trascurata. E’ morto Elio Di Maria, un piccolo grande testimone del ciclismo in bianco e nero, un minuscolo grandioso protagonista del Novecento in bicicletta, un vecchio leone di un metro e sessanta.
Era nato il 13 marzo 1925, a Quarto dei Mille, che allora non era ancora Genova e aveva il suo municipio: “Elio Corrado Di Maria all’anagrafe, ma il Corrado si è perso per strada”. Papà Sebastiano, fattorino all’Ina, mamma Olga, casalinga, e quattro fratelli, Alessandro, Elio, Renzo e Arnaldo: “Quinta elementare, poi di giorno a lavorare e di sera a studiare. Garzone in pasticceria, in pescheria, in macelleria: tutti mi volevano. E terza media serale”. Lo sport era il bello della vita: “A fare i bagni alla Sportiva Sturla, nuoto e pallanuoto, e la pallanuoto, anche in serie A, si giocava in mare. Gara di nuoto: pronti, via, ultimo. C’era anche Lina Volonghi, bella come una statua, campionessa di nuoto, poi attrice, mi disse che le dispiaceva, ma non andavo bene. Alla Sportiva Sturla c’era anche una sala da ballo, con dei guantoni da boxe. Primo incontro, uno più o meno come me: e lo mandai al tappeto. Secondo incontro, uno più grande di me: e lo mandai al tappeto. Terzo incontro, uno ancora più grande di me: e lo mandai al tappeto. Da quel momento, per tutti, divenni ‘il leone’”.
A Quarto il pugilato era un’arte coltivata con devozione: “Luigi Sciutto, peso massimo, sparring partner di Primo Carnera. E i fratelli Frangioni, parrucchieri, uno dei due era quello che insegnò la boxe a Duilio Loi. Ma mio padre non voleva: la vita era già abbastanza dura anche senza salire sul ring”. E allora ciclismo: “Quando c’erano le corse, mi fermavo a guardare i corridori e ad ammirare le biciclette, e facevo tardi con il lavoro di garzone. Un giorno mio zio macellaio mi tirò un osso che, se non ci fosse stata di mezzo una colonna, mi avrebbe ammazzato”. La prima volta, da esordiente, per la Sportiva Sturla: “Si chiamava ‘Il medaglione genovese’, da Sturla a Recco e ritorno, arrivo in salita, in viale Isonzo. Tre gare uguali. I pallanotisti mi dissero che, se fossi passato primo davanti alla Sportiva Sturla, mi avrebbero premiato con una gazzosa. Macché: tre volte quarto, e secondo nella classifica generale”. Però la stoffa c’era: “Allievo, non andavo oltre il decimo posto, ero giù di corda, finché all’ultima gara arrivai terzo”. Passò dilettante: “Nella Picarello-Arquata Scrivia-Picarello, rimanemmo in tre, io, Vittorio Rossello e Ramberti. Rossello si staccò sul Giovetto. Ramberti mi disse che, se gli avessi dato il mio premio, mi avrebbe lasciato vincere. Gli risposi di no. Feci bene: in volata, su 200 metri gliene detti 100”.
Di Maria era un libro di storia rotonda: “Quella volta che, in bicicletta, avevo portato un’abat-jour a Sestri Ponente e a Sampierdarena, mentre stavo tornando a casa, venni affiancato da un corridore su una bici Bianchi e con il maglione della Bianchi, che con accento toscano mi chiese ‘Oh bimbo, qual è la strada che va a Firenze?’, gli risposi ‘Mi segua fino a Quarto, poi continui a costeggiare il mare e vedrà che ci arriverà’, era Fiorenzo Magni che tornava a casa dopo un ritiro a Bordighera”. E poi: “Quella volta che ero andato a Levanto, in bicicletta, per prendere l’olio di oliva dei frantoi, era una giornata di pioggia e freddo, e nelle due gallerie in cima alle Grazie, sudato, presi freddo, finii all’ospedale con la pleurite e l’obbligo di non sudare più”. E ancora: “Quella volta che, a Genova, alla punzonatura della Coppa Boero, c’era la Siof, Biagio Cavanna e i suoi corridori, Sandrino Carrea e Ettore Milano mi salutarono, allora Cavanna, che era cieco, domandò chi fossi, gli risposero ‘Uno piccolo che andava forte’, gli raccontai della pleurite, allora lui mi visitò, mi tastò, poi sentenziò ‘Per me stai bene’ e mi invitò ‘Vieni a Novi’, così andai nel suo ‘collegio’, se era bello si mangiava in una tavolata nel cortile, se era brutto si mangiava in cucina, però c’era sempre da mangiare, e dopo una ventina di giorni di allenamenti per conto mio, corsa a Borgo Marengo, primo Luigi Malabrocca, secondo Serse Coppi, terzo Milano, io in gruppo, Cavanna mi chiese ‘E la pleurite, com’è andata?’”. E sempre: “In salita mi staccava solo Carrea. Si voltava, mi vedeva e mi chiedeva ‘Sei ancora qui?’, gli rispondevo ‘Finché ce la faccio, vengo’”. E infine: “Quando Carrea e Milano passarono professionisti nella Bianchi con Coppi, io e Parodi andammo da Cavanna per fargli promettere che l’anno dopo sarebbe toccato a noi. E invece Cavanna ci disse che eravamo troppo piccoli, che in caso di incidente meccanico a Fausto avremmo dovuto passargli le nostre bici, e le nostre bici non gli sarebbero andate bene”.
Vinse poco, Di Maria, ma quel poco sembrava enorme: “La Genova-Ventimiglia del 1950. Li staccai sul Berta. Primo al Gran premio della montagna. Mi feci riprendere in discesa: troppa strada, da lì all’arrivo. Proseguimmo in tre: io, Candiani di Busto Arsizio e Campi di Rossiglione. I giochi per la vittoria finale cominciarono a quattro chilometri dal traguardo, fino alla volata, sul viale delle Palme, davanti a mille spettatori: e stavolta trionfai. Ero così felice, e così stanco, e così sudato, che davanti a tutti mi spogliai della maglietta, mi sfilai anche le braghe e mi tuffai in mare. Non c’era la doccia”.
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