A Gabriele Moroni, cronista della miglior razza, si deve un esercizio letterario su Fausto Coppi che esce dagli abituali schemi e, per questo, meritevole d’attenzione. ‘Ho fatto parlare Coppi’, scherza ma non troppo lo storico inviato del Giorno che nel volume ‘Non ho tradito nessuno’ (352 pagine, Neri Pozza editore, 13,50 euro) ha messo in ordine ciò che il Campionissimo ha scritto di proprio pugno negli anni Cinquanta su riviste e quotidiani. Ne è uscita un’autobiografia in piena regola, che esalta una dote meno nota del fuoriclasse più raccontato del ciclismo: quella di sapersi anche raccontare da solo.
Rispettando la cronologia dei fatti e collegando gli scritti col sottile filo di brevissime spiegazioni, Moroni lascia a Coppi il compito di ripercorrere con le sue parole quasi una vita intera: bella e ampiamente nota, questa avventura umana vista dalla parte dal campione acquista un fascino particolare. Con le sue parole, Fausto racconta le prime emozioni in bici, la gioia che gli dava percorrere le strade delle sue colline facendo il garzone di bottega e poi l’atleta, il brivido del Giro d’Italia del 1940 che lo rivelò al mondo e la soddisfazione che gli diede il Giro di Toscana dell’anno successivo in cui, a quanto scrive di suo pugno Coppi, nacque la rivalità con Bartali.
E ancora: il record dell’ora al Vigorelli appena prima della guerra e della prigionia, il blitz a casa da Napoli in bici durante una licenza, il ritorno alle corse e alle vittorie, come quella del Tour del ’52 considerata una gemma anche da lui stesso. E tanti retroscena, come le ‘fughe’ dagli alberghi per riposare in pace prima delle gare importanti, le richieste di non andare al Tour con Bartali per non soffrire il peso dell’antagonismo col rivale, la pagina nera del mondiale del ’48 a Valkenburg ’dove avvertii un senso di umiliazione’. E anche le motivazioni che lo spingevano (‘è soprattutto ai giovani, a coloro che si affacciano alla vita che io intendo offrire i tesori della mia vita sportiva’, racconta a proposito del Tour vinto nel ’49, da debuttante come gli era accaduto al Giro), il giudizio schietto sui rivali, le critiche al ciclismo (‘di sette Mondiali che ho corso, ne ho vinto soltanto uno, nemmeno il migliore disputato: ma non è giusto assegnare l’iride con una prova soltanto’), usando termini anche pittoreschi, laddove la maglia gialla diventa ‘paletot’ e la bici è sempre e soltanto ‘la macchina’ su cui salire.
E’ un Coppi vero, perché parla di se stesso e di situazioni vissute di persona, anche se non è un Coppi completo, perché dalle sue narrazioni lascia comprensibilmente fuori le tormentate vicende familiari: una piccola mancanza che non impedisce a questa raccolta di testimonianze di essere un gioiello.
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