Seguire il discorso, ritagliato dalla Gazzetta: “Mi sto trovando molto bene con il nuovo staff. Mi piace che si sia preso in considerazione, prima ancora della preparazione e della prestazione, l’aspetto umano, la serenità. Stare bene, avere equilibrio, passare anche qualche giorno in più in famiglia: questo conta. Troppe volte si parla di numeri, si pensa troppo ai test e ai watt, ma per raggiungere questi numeri devi stare bene ed essere sereno”.
Sembra un brano tratto dai Saggi di Montaigne, è semplicemente la ripartenza di Fabio Aru, atteso in modo trepidante da tutto un popolo, prima ancora che da se stesso. Dopo un lungo e interminabile giro alla ricerca di un perché, perché da tre anni ormai non riesca più a ritrovarsi, il punto d’arrivo è a suo modo sconvolgente. Non tanto per il contenuto, quanto perché sia servito un interminabile calvario per arrivarci. Aru ci dice che senza stabilità, senza equilibrio, senza armonia, senza quella benedetta pace interiore che tutti gli uomini inseguono, tanti senza arrivarci mai, Aru ci dice che senza un cielo sereno dentro è impossibile fare bene qualunque cosa, ciclismo compreso. Sottolineatura sua: troppe volte si sta lì a misurare il watt in più o in meno, ma prima dei numeri c’è l’anima.
Per capirci subito: nel ciclismo, senza watt non si va da nessuna parte. Io posso essere un mistico anacoreta distaccato da qualunque cruccio umano, ma senza le gambe non vinco sul Mortirolo. Eppure non finisce qui. Parlando di gente che i watt li ha in abbondanza, che le gambe le fa girare alla grande, è chiaro che la differenza risiede al centro del pensiero e del sentimento. Registrare questa centralina significa registrare l’intera macchina. Non a caso, assieme agli influencer e ai transgender, l’epoca moderna ci ha portato anche il mental coach. Un capo-officina che pone mano ai sofisticati circuiti interni per metterli a bolla, là dove si riscontrano ansie, angosce, fragilità, spettri e sbalestramenti vari. Accanto al misuratore di potenza, un misuratore di coscienza.
Ognuno cerca e trova il suo mental coach ideale. C’è chi l’ha trovato semplicemente in una brava moglie. Chi l’ha trovato in un’università americana. Qualcuno, alla vecchia, risparmia soldi avendo già trovato i più grandi mental coach nell’antichità, da Socrate a Gesù Cristo, da Seneca a Erasmo, da Montaigne a Voltaire. Si cerca, si cerca, qualche volta si trova. Ma non sempre. Comunque mai abbastanza.
È persino troppo ovvio dire che per qualche temperamento animalesco e belluino il mental coach non serva a granchè: in quel caso, se mai, può servire qualche tisana rilassante, per limare un po’ gli spigoli all’irruenza e all’intemperanza, magari anche per mettere qualche argine all’IO ipertrofico che carica a tutto spiano con la semplice certezza d’essere un semidio.
In generale, però, la vocina pacata e vagamente ascetica del saggio, sia esso un professore universitario o i “Dialoghi Morali”, questa vocina può essere la migliore stampella per tutti, soprattutto nei momenti cupi dell’esistenza. Magari non serve a vincere niente, cioè non cambia i risultati, ma certamente aiuta a incassare meglio le sventole che nella vita ci arrivano da tutte le parti. Non c’è come raggiungere una certa imperturbabilità dell’animo per sentirsi poi stranamente anche più in gamba e in salute, persino più vitali ed energici. A posto la centralina, a posto il motore. È di questo che bisognerebbe parlare, quando certi genitori ancora si chiedono a cosa serva far studiare i figli: zucconi materialisti palancai, non serve a crescere un avvocato o un ingegnere, serve prima di tutto a crescere una persona. E Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno.
Facendola tanto lunga, non vorrei mai che qualcuno immaginasse una mia aspirazione segreta a fare il mental coach di qualcuno. Nel caso, sgombro il campo dal sospetto: ho già il mio da fare con i miei mental coach, quella gente che ha scritto libri sublimi rovistando nelle nostre segrete, perché possa immaginare di insegnare qualcosa a qualcuno. No, se ho avviato il discorso è semplicemente perché le parole di Aru mi hanno molto colpito. Seguono quelle di Moreno Moser, che ha espresso concetti simili scegliendo di correre in una squadra più familiare. Nel mondo dell’ipertecnologia e della scienza depravata, emergono bisogni più metafisici che fisici: è un segnale. Se davvero i watt fanno un passo indietro, lasciando un po’ di spazio alla serenità, significa che finalmente ci si sta ponendo il grande dilemma: costruire prima l’atleta o prima l’uomo?
da tuttoBICI di febbraio