Pensi di aver ascoltato tutto, della storia della bicicletta, finché non leggi che “in polacco la bici si definisce ‘rower’, dal nome del produttore di macchine da cucire Rover, inventore della catena” e che ”nella lingua dioula, parlata in Burkina Faso, le prime bici, arrivate con la colonizzazione degli anni ’20 del Novecento, venivano chiamate ‘nèguèso’, che significa cavallo di ferro”.
Pensi di aver studiato tutto, dell’economia della bicicletta, finché non scopri che Vélissime è “una mensa itinerante che si posiziona in prossimità dei grandi blocchi di uffici parigini”, che il Vélo à fruits “propone frutta di stagione ai quadri dei quartieri chic di Parigi”, che Vélopresso è stato “ideato per il venditore di caffè espresso che circola in città”.
Pensi di aver sentito tutto, delle possibilità della bicicletta, finché non ti accorgi che “a Montréal, in Canada, i trasporti Myette propongono traslochi in bicicletta”, che “i cicloturisti spendono di più di quelli che circolano in macchina, rivela uno studio di Atout France”, che “quando la Cina era comunista, la bicicletta era privata; ora che è capitalista, è pubblica”, che “la società britannica Cyclehoop vende dei curiosi oggetti: si tratta di rastrelliere per legare le biciclette montate su un supporto metallico colorato di rosa o di verde, che ha la forma di un’automobile a grandezza reale. Così, il passante può immediatamente constatare quale sia lo spazio occupato da questi due mezzi di trasporto”.
Olivier Razemon, giornalista francese, ha scritto “Il potere dei pedali” (Epoké, 162 pagine, 16 euro, con prefazione di Matteo Lombardi e postfazione di Luca Lovelli), e non è uno dei tanti saggi sulle infinite declinazioni della bicicletta. Razemon traccia una breve storia ragionata della “macchina per correre”, affresca sette (false) immagini della bici, dimostra come sia la più bella conquista dell’uomo, descrive la forza economica di questo strumento, infine teorizza la “transizione ciclabile”, “un insieme di scelte politiche, a tutti i livelli, dalla tromba delle scale al Parlamento europeo”. Il suo punto di vista – i francesi, più degli italiani, hanno coscienza dell’importanza fondamentale della bici – regala un panorama più ampio, perfino nella lotta contro i furti (il “passaporto della bici”, lanciato a Strasburgo dall’associazione Cadr67 e basato sull’incisione indolore di un numero di almeno 12 cifre sul telaio con un percussore elettrico). E se nonostante tutte le sue qualità e doti la bicicletta non riuscirà nel miracolo di salvare il mondo, ha però tutti i requisiti per dilatarne l’agonia. Rispetto della natura, stile di vita, sensibilità verso gli altri, ricerca della bellezza, senso di appartenenza trasversale, spirituale, universale. Un movimento – il termine movimento, qui, è perfetto – fatto non di cinque stelle, ma di 28 (anche più e meno) raggi e due ruote.
La vera battaglia deve essere giocata nelle città, nelle metropoli, nelle megalopoli. Ideale per gite, escursioni, viaggi, ideale per fuggire e inseguire, sognare e sudare, disciplinare e uguagliare, la bici deve ancora convincere di essere indispensabile proprio dove il suo valore si moltiplicae si ingigantisce: sostituire non i treni o le moto, ma le macchine. In un centro urbano, tutto quello che si fa – e Razemon lo mostra, lo dimostra -, si può fare in bicicletta. Tranquillamente. Economicamente. Naturalmente. Insomma: infinitamente meglio.
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