La prima ragione, la numero 1, ma non la più importante, è che “in bici si può prendere il treno”. L’ultima ragione, la numero 98, ma non la meno urgente, è che “il viaggio in bicicletta continua”. La ragione più filosofica, la numero 64, è che “la bicicletta è anarchia”. La ragione più salutare, la numero 47, è che “andando in bici passa il desiderio di bere e di fumare”. La ragione più semplice, e dunque la più vera, la numero 65, è che “la bicicletta è essenziale”.
Martin Angioni ha individuato, selezionato, elencato, scritto e descritto “Le 98 ragioni per cui vado in bicicletta” (Utet, 256 pagine, 16 euro). Figlio di un campione olimpico (Paolo, Giochi di Tokyo nel 1964, equitazione, concorso completo a squadre), fin da piccolo, e poi da ragazzo, e quindi da uomo, Angioni ha sempre respirato, abitato, vissuto a forza, a gioia, a passione di pedali. Dalla sua prima bici da corsa “seria”, una Benotto, alla bici viola da città acquistata in un mercatino di Manhattan, una Trek; dalle uscite nella periferia di Milano o di Parigi, alle salite sui passi del Giro d’Italia e sui colli del Tour de France. Finché la bicicletta lo ha spinto a spiegare il pedalare, in tutte le sue 98 (buone) ragioni.
Ci sono ragioni evidenti: come la numero 60, “per andare in bicicletta ci vuole un sacco di tempo”. Ci sono ragioni lapalissiane: come la numero 22, “è bello avere tante biciclette”. Ci sono ragioni sorprendenti: come la numero 46, “è bello pedalare nella notte in estate”. Ci sono ragioni poetiche: come la numero 84, “la bicicletta parla con una voce”. Ci sono ragioni fisiche: come la numero 86, “in bicicletta è il corpo che parla”. Ci sono ragioni spirituali: come la numero 48, “è bello partire in bici senza saper dove andare”. Ci sono anche ragioni ormai diventate più discutibili, data la moda, la tendenza: come la numero 68, “bicicletta è anticonformismo”. E c’è perfino una ragione falsa: come la numero 85, “in bicicletta non si prendono multe”.
Molte ragioni appartengono a tutti, alcune sono personali. Angioni – e lo si capisce fin dal titolo del libro – è autoreferenziale e autobiografico, e così elabora ragioni e pensieri coltivati e ruminati in tutti i suoi chilometri asfaltati e sterrati, urbani e rurali, in gruppo o in solitaria, dove confrontarsi, specchiarsi, allungare, svoltare. In questi tornanti della memoria, Angioni recupera una lettera di Cesare Pavese a Giulio Einaudi, in cui lo scrittore rifiutava la revisione di un testo: “C’è una vita da vivere” e “ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere”. E questa potrebbe essere la ragione più letteraria, la numero 99.
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