Prima ad Antagnod, alla partenza. Poi di corsa sul Col de Joux, al primo dei cinque gran premi della montagna. Poi di corsa a Montjovet, più o meno a metà percorso. Poi di corsa sul Col d’Arlaz, al terzo gran premio della montagna. Poi di corsa a Champoluc, all’arrivo. Di corsa anche se in macchina con il marito Marco: ma che sfacchinata per vedere in azione il proprio figlio. Cuore di mamma.
Imelda Chiappa è la mamma di Kevin Colleoni, dorsale numero 86, maglia gialla e nera della Biesse Carrera Gavardo, attore protagonista al Giro della Valle d’Aosta. Ma è anche la prima ciclista italiana nella storia ad avere conquistato una medaglia olimpica: l’argento, nella prova su strada, ai Giochi di Atlanta nel 1996. Qui, al cospetto del Monte Bianco e del Monte Rosa, la mamma segue il figlio, lo anticipa, lo aspetta. Sorridente, affettuosa, leggera. E lo accompagna, lo precede, lo insegue. Invisibile, solare, luminosa. Fra ricordi e speranze, fra racconti e consigli, fra ieri oggi e domani.
Il pronti-via? “Più facile per Kevin che per me. Mio padre lavorava come fuochista in un’azienda di bachi da seta, poi anche il contadino. Mia madre era la custode. Di bici, in casa, c’era solo quella di mio padre: da uomo, da passeggio, nera. Ho imparato ad andarci da sola, ma siccome ero piccolina, mi arrangiai pedalando sotto la canna. La bici era quasi un lusso e noi, di lussi, non potevamo concederceli. Mio padre fece la comparsa nel film ‘L’albero degli zoccoli’ di Ermanno Olmi: la scena era quella della protesta davanti ai cancelli, uomini e donne, insieme. Ma allora non si era capita l’importanza del film né quella del regista, anche se una cosa si era capita: nessun compenso per le comparse. E intanto mia madre preparava la zuppa per le attrici”.
Gli inizi? “Lo sport era quello della strada: un giorno domandarono a mia madre se potevo andare a Bergamo a fare ginnastica artistica, lei si informò se ci fosse da pagare qualcosa, e quando risposero di sì, lei annunciò che non sarei andata. Siccome ero una maschietta, facevo quello che facevano i maschi: se c’era da correre a piedi, correvo, se c’era da giocare a pallone, giocavo a pallone, e quando ci fu da correre in bici, corsi in bici. Avevo già 16 o 17 anni, il padre di Roberta Bonanomi, che poi sarebbe stata azzurra anche lei, mi chiese: ‘Tu che sei una supersportiva, vieni a fare una gara in bici?’. Ci andai”.
La prima volta? “A Catena di Villorba, vicino a Treviso, il paese dov’era nato Nane Pinarello. Pronti-via, a un certo punto mi gridarono ‘spostati!’, io mi spostai e finii nel fossato, la catena scese dal 52 al 42, tornai in strada, risalii in bici, inseguii frullando il 42, rientrai all’ultimo giro, e all’arrivo, a sorpresa, fui premiata come la concorrente più grintosa: una coppa in ferro battuto, che conservo ancora. Quello stesso anno vinsi due volte, la prima a Ceglie Messapica, in Puglia. Lavoravo in un’azienda tessile, facendo i turni, perché studiare non mi piaceva, dopo la terza media avevo già smesso, però i soldi del lavoro li davo in casa”.
Quella volta ad Atlanta? “Fui fortunata. Cominciò a piovere, e a me correre sotto la pioggia non è mai piaciuto, così decisi di portarmi un po’ avanti. Entrai nella fuga di un gruppetto. C’era anche Jeannie Longo, la francese, andava come una moto, e il gruppetto cominciò a sgretolarsi. Rimanemmo in tre. Quando io e una canadese passavamo a tirare, rallentavamo, e la Longo si arrabbiava, scattava e ci staccava, e noi dovevamo inseguirla e raggiungerla, finché tirò sempre lei e così ci condusse all’arrivo. E pensare che a quell’Olimpiade non mi volevano neanche portare”.
E la bici? “L’ho sempre amata. Quando nacque Maurizio, neppure mi fermai. Quando nacque Kevin, quasi. La bici mi piaceva, mi divertiva, mi rallegrava. Dieci Mondiali, due Olimpiadi, cinque Tour de France, non so neanche quanti Giri d’Italia. Due volte campionessa italiana in linea, tre volte a cronometro. Smisi di correre a 32 anni, ma non ho mai smesso di andare in bici, non potrei, non ci riuscirei. Adesso faccio i giri della salute: pedalare mi scarica e mi ricarica, mi stanca e mi rigenera, mi rilassa e mi libera. Faccio i miei 80-90 km, poi quando torno a casa, non mi siedo, non sto mai ferma, ho mille cose da fare. E anche l’altro giorno, quando ho fatto il San Marco, in tutto 145 km, poi doccia e via, come prima, più di prima”.
Imelda: che fa da direttore sportivo per i giovanissimi della Caluschese, che non si permette di dare consigli a Kevin, che tanto quando gliene scappa mezzo Kevin le dice ‘mamma, zitta!’, che in bici una salitella – il Berbenno, la Roncola, ma non la Valcava – la inserisce sempre, che definisce il ciclismo un “giocare e impegnarsi”, che dice che il ciclismo le ha insegnato a “saper soffrire”, che il suo segreto era “l’orgoglio” e la sua filosofia “finché ne avevo, non mi risparmiavo”, e che si coccola il suo Kevin da lontano: “E’ così giovane, è così bello, va all’attacco, va all’avventura, e se poi scoppia, pazienza, l’importante è che si diverta”. Cuore di mamma.
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