di Cristiano Gatti -
Come raccontare ai nipoti una giornata così, questo il problema. Per non sapere né leggere né scrivere, io mi limito a salvare in memoria queste righe a braccio, sull’onda dell’emozione.
Riga Uno, dedicata a Chris Froome, per la pedalata noto come Chris Frool. Se vincerà il Giro sarà davvero magnifico, perché non c’è niente di più bello della grande corsa vinta da un autentico campione. Ma se vincerà il Giro sarà soprattutto giusto. Magari non è giusto che sia qui, perché l’enfasi non può cancellare la sua posizione di imputato in attesa di giudizio. Ma una volta che le regole gliel’hanno consentito ha onorato la corsa italiana in modo grandioso. Tutti in piedi per un ometto che è caduto e si è fracassato ancora prima di cominciare, che è ricaduto una seconda volta al santuario di Montevergine, che ha preso musate e umiliazioni di fronte ad avversari incendiari e scattanti, che addirittura ha subito l’umiliazione peggiore di essere dato in fuga vigliacca, non una cosa da lui, e che infine ha ritrovato dentro di sé la forza e il coraggio per osare. Si è ritrovato sullo Zoncolan, poi si è concesso ciò che non si era concesso mai: la follia. Lo dice lui stesso con il magnifico sorriso che l’Italia ha imparato a conoscere tutti i giorni, in quelli belli e soprattutto in quelli brutti (sì, imparatelo, permalosi corridori italiani: guardatelo questo sorriso, e magari fateci sopra una riflessione): “Sapevo che per vincere il Giro dovevo fare qualcosa di extraordinario, una pazzia”. Ottanta chilometri di fuga solitaria, guadagnando in salita, in discesa, in falsopiano. Alla fine, la maglia rosa, mezzo Giro (o tre quarti) in tasca, e forse più ancora una reputazione definitiva: via la diceria secondo la quale Frool è buono solo per il Tour, non per la durezza del Giro. Tutto cancellato. In questo 2018, Frool si laurea campione totale. E’ proprio la brutalità dei tapponi italiani a renderlo ancora più grande. Non una novità da poco. Voglio vedere adesso chi di noi ha ancora qualche ma, se, però da caricargli sopra. Quattro Tour, una Vuelta, un Giro così (comunque finisca) mi sembra possano bastare per tirare l’unica conclusione possibile: Altra Categoria. E per quanto sia doveroso che risponda della sua macchia alla Vuelta, per favore non mi si venga a dire che una fuga simile è merito del salbutamolo.
Riga numero due, dedicata a Simon Yates. Spiace vederlo ridotto a brandelli. Umanamente fa compassione. Però una cosa se la lasci dire: la prossima volta, magari, un po’ di boria in meno.
Riga numero tre, dedicata a Beppe Conti, intrattenitore Rai del mattino. Bullo come Yates in rosa, alla partenza di Venaria spiega con fare saccente che “nella tappa di Prato Nevoso, Aru è andato a spasso, risparmiandosi perché oggi vuole vincere. Sì, Bardonecchia sarà la tappa di Aru”. Sono le 12,50, fuso orario Rai. Pochi minuti dopo, radio corsa annuncia che Aru si ritira al chilometro 41. Morale: a fare previsioni sul tempo futuro, Beppe Conti non vale una sverza. Qualcuno lo rinchiuda nel passato remoto e butti via le chiavi.
Riga numero quattro, dedicata alla coppia Pancani-Martinello, telecronisti di Stato: l’interminabile diretta della tappa leggendaria si ritrova i narratori che merita. Complimenti illimitati. E’ un piacere inchinarsi alla bravura. Evidentemente, non tutti i Rai vengono per nuocere.