Non voleva essere il paladino, l’emblema, la bandiera, il simbolo dell’antidoping. Lui voleva soltanto allenare.
Sandro Donati ha 76 anni: un terzo li ha vissuti lottando contro il doping. Sfidando, combattendo, attaccando. Scavando, indagando, scoprendo. Ribellandosi, indignandosi, difendendosi. Subendo, soffrendo, pagando. E testimoniando.
Domenica scorsa il Prof era a Macerata, ospite del Festival Overtime, dedicato al giornalismo sportivo. L’occasione, la presentazione di “Storia dell’omicidio di un marciatore”, un podcast curato da Vincenzo Frenda per RaiPlaySound su Alex Schwazer, nove puntate per un totale di due ore e otto minuti, dal dono di un talento eccezionale fino alla vittoria in tribunale ma anche al ritiro agonistico.
Donati si è ancora una volta raccontato. Quando ingaggiò la prima battaglia (“Nel 1998, seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e la sua urina venne manipolata”), quando denunciò Alex Schwazer (“Mi insospettii anche perché nessun atleta, un mese prima delle Olimpiadi, viene lasciato ad allenarsi da solo”), quando lo stesso Alex lo cercò e lo volle (“Allora mi allena?, ha il coraggio di sporcarsi le mani con me?, mi domandò, e poi aggiunse che un giorno avrebbe voluto mostrare ai suoi figli quello di cui era stato veramente capace”), quando lui decise di allenarlo (“Volevo rompere gli schemi”), quando lo accompagnava in bicicletta (“Sulla pista ciclabile di Saxa Rubra, a Roma, e intuii che aveva un potenziale straordinario, eccezionale, unico, da pulito avrebbe potuto ottenere risultati migliori che da dopato”), quando scoprì che cosa fosse il Male (“Tranelli, agguati, inganni, intrighi, complicità. Un delitto di Stato. Un sistema autoreferenziale che fa quello che vuole”), quando si sentì solo (“Una sfida al sistema in cui venni lasciato solo, solo contro tutti”), quando furono colpiti tutti e due (“Alex per le denunce al Tribunale di Bolzano, io per quello che avevo predicato per trent’anni”). Nel suo libro “I signori del doping” (Rizzoli) c’è tutto, così come nel docufilm “Il caso Alex Schwazer” su Netflix e adesso nel podcast “Storia dell’omicidio di un marciatore” di Frenda su RaiPlaySound.
Le rivelazioni di Donati, l’uomo che andava in bicicletta accompagnando Schwazer, creano sempre sconcerto e rabbia. Lo rifarebbe? “Se non lo avessi fatto, non avrei mai potuto convivere con me stesso. Per me non c’erano altre strade”. E’ stato utile? “Forse ho creato un po’ di consapevolezza”. Di notte ha sempre dormito? “Sì, tranquillo, con la coscienza a posto”. Si è mai sentito in pericolo di vita? “Però mi sono sentito screditato e infamato, e forse è peggio”. Che cos’è il doping? “E’ la corruzione delle istituzioni sportive”.
Non voleva essere il paladino, l’emblema, la bandiera, il simbolo dell’antidoping. Lui voleva soltanto allenare. E adesso finalmente è tornato ad allenare. “A Roma, all’Acquacetosa, tutti i giorni, quattro o cinque ore sul campo con alcuni ragazzi e ragazze, velocisti e saltatori, fiduciosi e veri. Perché non viene a trovarci?”.