Cinquemila metri. In bitume e ghiaino. Comincia nel centro di Lonigo, prosegue verso Albaredo, si congiungerà al lungoAdige. Attraversa anche il fiume Guà su un nuovo ponte. E’ la ciclopedonale intitolata a Davide Rebellin.
E’ stata inaugurata domenica scorsa. A Lonigo, una ventina di chilometri a sud-ovest di Vicenza, dove abita ancora la famiglia Rebellin. E’ la prima. E non sarà l’ultima. Davide: 31 anni da professionista, alcune vittorie (Amstel, Freccia, Liegi, tappe e maglie in corse a tappe) da campione. Una vita da protagonista in bicicletta, la morte da martire sulla strada. Aveva 51 anni. Accadde neanche 10 mesi fa, l’eco della tragedia non si è ancora spento, forse non si spegnerà mai. A celebrare la nascita del percorso riservato a chi cammina e a chi pedala, un’azione concreta e simbolica, c’era una piccola folla tra famigliari e autorità, ciclisti e abitanti.
Le ciclopedonali sono piste riservate e dedicate, custodiscono ed esaltano la lentezza, evitano la convivenza con auto e camion, pullman e furgoni, aiutano quella tra pedoni e ciclisti, ricordano che la strada è di tutti, e soprattutto dei più deboli, dei più fragili, dei più piccoli. Uno spazio da usare e promuovere, da proteggere e mantenere, da allungare – se possibile - all’infinito. E si allungherà anche la ciclopedonale di Rebellin, unendo pezzi già pronti ad altri da sistemare, ultimare, perfezionare. Sapendo che, comunque, le ciclopedonali non sono, non possono essere la soluzione ai problemi della sicurezza stradale.
Perché quella della sicurezza è una strada lunga, lunghissima. Indispensabile la cultura. La cultura del rispetto. Il rispetto delle persone. Il rispetto delle regole. Il rispetto dei valori. E chi va in bicicletta al lavoro, a scuola, al mercato, o a disintossicarsi, a svagarsi, ad allenarsi, o a spasso, in gita, in viaggio, è già valoroso.
Rebellin sarà stato contento. Era un uomo semplice, mite, consapevole. Il ciclismo lo aveva disciplinato, la vita lo aveva provato e anche segnato. Profondo conoscitore della strada, partecipava alle lotte per i diritti dei ciclisti urbani come praticante, come testimone, come bandiera. Ci metteva la faccia, e l’anima. Temeva, ma certo non se lo aspettava, di metterci anche il corpo.