
Fu una folgorazione: “Avevo sette-otto anni quando la bici mi entrò nel cuore”. Fu una passione: “Stella Veneta, la mia prima bici da corsa, grigia, e ce l’ho ancora”. Fu un amore: “Perché fu? Lo è ancora”.
Giampaolo Fregonese, “Johnny”, del 1963, veneto di Treviso, trevigiano di Mansuè: “Nessuna tradizione famigliare ciclistica. Papà per il calcio, mamma per niente. Io mi dividevo fra calcio e bici, poi solo bici. Le uscite, le corse, le trasferte. I chilometri. Le salite. In salita andavo un po’ di più degli altri. E in salita avrei trovato le mie soddisfazioni. La Schio-Ossario del Pasubio nel 1980 e 1981, poi la Cronoscalata della Futa, la Pordenone-Piancavallo, la Trento-Bondone… Ma non sarei mai diventato né Nencini, né Pantani, né Gaul”.
Però tre anni di professionismo, dal 1988 al 1990, con la Malvor, e tre anni di avventure: “Il primo anno anche al Giro d’Italia. C’ero anch’io nella tappa del Gavia, prima la pioggia, poi la neve, il fango, il ghiaccio, le nubi basse, le mani rigide, la mantellina dura, gli occhiali appannati. Due volte mi fermai, due volte ripartii. Alla fine della discesa c’era la seconda ammiraglia, quella guidata da Bruno Vicino, che mi seguì fino al traguardo. Fui aiutato a scendere dalla bici e a spogliarmi degli indumenti. A farlo erano le miss della Coca-Cola. Mi sembrava di essere all’improvviso passato da un incubo a un sogno. Mi riscaldai subito con un tè caldo, mi rifocillai la sera con due piatti di pizzoccheri”.
Nessuna vittoria: “La volta che le andai più vicino fu alla Kika Klassic del 1988, in Austria. Sprintai, urlai, mi rialzai, e lo svedese Wahlqvist della Bianchi mi superò sulla linea. Avrò perso per un centimetro, forse due”. Qualche piazzamento: “Dodicesimo a un Giro di Toscana, dodicesimo a un Giro del Trentino. Ma il mio compito era aiutare i compagni, obbedire alle strategie, rispettare gli impegni”. Quella volta che Dino Zandegù gli comandò di seguire Gibì Baronchelli dovunque andasse: “Mi incollai alla sua ruota. E quando lui abbandonò la corsa, la abbandonai anch’io”. E quella volta che perse prima ancora di partire: “Volo con arrivo previsto a Reggio Calabria, poi, causa vuoti d’aria, dirottato a Lamezia Terme. Con un fax, perché non esistevano ancora i telefonini, Zandegù comunicò che ci sarebbe venuto a prendere: Silvano Lorenzon, Gianni Faresin, Daniele Gallo e io. Ma Zandegù non comunicò che sarebbe arrivato alle quattro di mattina quando, disperati, avevamo già telefonato alla polizia per sapere se ci fossero stati incidenti stradali. Dino si presentò con un amico e noi quattro con bici e valigie. Ci stringemmo come sardine, io davanti sulle ginocchia dell’amico di Dino. Entrai nella stanza dell’albergo all’alba quando Maurizio Piovani si stava svegliando. Sei arrivato adesso? Sì. Ma oggi corri? Sì. Alla partenza ero già stanco morto, in corsa uno straccio. Zandegù mi chiamò all’ammiraglia, in coda al gruppo, poi disse di non preoccuparmi, un caffè doppio, una sudatina, e tutto sarebbe passato. Mentre io e gli altri tre compagni risalivamo faticosamente il gruppo, Beppe Saronni, che di quella Malvor era il capitano, annunciava a tutti i corridori: attenzione!, attenzione!, fate passare i metronotte!”.
Fu una folgorazione, una passione, un amore: “Fu anche un privilegio, una fortuna, un gran divertimento”
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