Avrebbe desiderato iscriversi a Lettere. Si laureò in Ingegneria elettronica. Il giorno in cui guadagnò papiro e alloro, consegnò tutto ai genitori e cominciò finalmente a seguire quello che, a sussurri, gli urlava il cuore. Sport. Da scrivere. Che significa studiare, seguire, approfondire. Che significa andare, venire, vedere. Che significa consultare, telefonare, viaggiare. Che significa domandare, ascoltare, capire. E finalmente scrivere.
L’altro giorno, a Milano, l’Unione stampa sportiva italiana, con Sport e salute, l’Ordine dei giornalisti e la Federazione nazionale stampa italiana, ha indetto una mezza giornata tra convegno e premiazioni, dedicata a Elio Trifari. Vicedirettore della “Gazzetta dello Sport” quando il direttore era Candido Cannavò e direttore di “Sportweek”, solo per dirne due. Autore dei due volumi della indispensabile “Enciclopedia dello sport” e della monumentale “110 anni di gloria” sulla storia dello sport italiano e mondiale raccontata dalla “Gazzetta dello Sport”, per dirne altre due. Un giornalista di quelli che, a prescindere dalle iniziali di nome e cognome, per la sua scienza e anche per la sua modestia, già appare come un ExtraTerrestre.
Seduta nell’ultima fila della sala-stampa del Palazzo Lombardia c’era Luciana, la moglie di Elio. Non sarebbe neanche voluta venire, ma nel braccio di ferro con il senso del dovere aveva perso ed eccola lì. Sottovoce, mi ha raccontato di quando Elio la conquistò (“Da ragazzi, casualmente nello stesso campeggio, poi l’autostop, lui lo chiese anche a un carro funebre. Quella determinazione mi coinvolse subito”), di quando Elio abbandonò l’ingegneria per l’atletica (“Si pagava le trasferte dando lezioni di latino e greco, quella era la sua grande dote, sapeva tradurre a vista dal latino al greco e dal greco al latino senza passare per l’italiano”), di quando Elio si specializzò nell’atletica (“Il punto di riferimento per quella maschile era Roberto Luigi Quercetani, lui lo divenne di quella femminile, poi la collaborazione con Dante Merlo e con Gianni Merlo, padre e figlio, poi la chiamata in “Gazzetta”), di quando Elio lavorava in “Gazzetta” (“Era la sua famiglia, non so se la prima o la seconda, diciamo l’altra”), di quando lasciò la scrittura per la direzione (“Gli dissi di non farlo, gli dissi che se ne sarebbe pentito, gli disse che gli sarebbero mancati gli stadi, le piste, i meeting, gli dissi che a scrivere era bravissimo, leggevo i suoi pezzi e a me sembrava di essere proprio lì, ma niente da fare”).
Napoletano di Mergellina, nato un mesetto prima della Liberazione, morto quasi due anni fa, Trifari era il nostro punto di riferimento: per le conoscenze, per la saggezza, per l’equilibrio, per l’ironia, per la competenza. Capace di passare da Astylos a Giovanni Roccotelli, da Fidippide a Franco Bitossi, da Alfonsina Strada a Sara Simeoni, senza sbagliare una misura, senza confondere un anno e senza dover ricorrere a una cancellatura. “La cosa più incredibile – ha aggiunto Luciana – è che se doveva scrivere quattromila battute, quattromila erano senza neanche doverle contare”.
E forse grazie a tutti questi primati Elio era l’unico che, in redazione, poteva concedersi il lusso di calzare, d’estate, sandali francescani, ovviamente a piedi nudi. “Quante volte provai a dissuaderlo – ha sospirato Luciana – ma anche qui invano, finché rinunciai”. Gianni Merlo, prendendomi in disparte, mi ha poi confessato che, sempre d’estate, non nella sede di via Solferino ma in quella precedente di piazza Cavour, Trifari aveva osato lavorare in costume da bagno e ciabatte. Oggi lo denuncerebbero ai probiviri. Ma ci sono ancora, i probiviri?
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