È un uomo squadra, ma Matteo Trentin rappresenta anche un intero movimento: il nostro. Domani al Fiandre sarà a fianco del numero uno del ciclismo mondiale, Tadej Pogacar, ed è altrettanto chiaro che per noi è già qualcosa: un uomo prezioso sarà vicino ad un corridore unico.
Sarà una sfida pop, su quelle pietre verticali che non rotolano ma vanno scalate all’insù. Tutti contro i “tre tenori”, tutti contro Van Aert, Van der Poel e Pogacar. Tutti in attesa di questi fenomenali corridori che possiedono numeri da fuoriclasse e stanno rendendo il nostro sport prelibato come pochi. E noi lì, già in sollucchero, in attesa di un loro gesto, di un loro cenno, di una loro accelerazione.
Matteo Trentin, con i suoi 33 anni suonati è uno dei corridori più esperti, affidabili e intelligenti del gruppo. Sulle spalle e nella mente undici edizioni di una delle corse più belle al mondo, per quanto ci riguarda la più bella in assoluto, per i belgi certamente la più importante rispetto anche ad un mondiale. Edizione numero 107, Trentin rappresenta una piccola Italia, che è in attesa di un cambiamento generazionale.
«Per tanto tempo siamo stati riferimento mondiale del ciclismo - ci racconta il trentino della Uae Emirates -, abbiamo davvero fatto scuola, ma qualcosa negli ultimi anni probabilmente si è rotto. Dobbiamo prenderne atto: gli altri sono stati più bravi. Dobbiamo solo resettare tutto e rimboccarci le maniche. Bisognerà adattarsi ad un nuovo ciclismo. È chiaro che siamo stati più lenti nell'evolverci, ritenendo il nostro modello ancora valido per consuetudini e storia».
A proposito di storia: come è stata la tua prima “Ronde”?
«Esordio nel 2012, l'ultima vinta da Tom Boonen. Ricordo perfettamente l’atmosfera esplosiva: questa è una corsa che si sente anche sotto i piedi, tanta è la tensione. Quando ero alla Quick-Step era considerata alla stregua di un Mondiale».
La sua stagione, però, non è iniziata nel migliore dei modi.
«Esattamente. Inverno molto buono, poi meglio non parlarne. A Maiorca sono subito caduto in gara, facendomi male ad anca e gomito. Dopo l'Algarve mi sono ammalato, un virus intestinale mi ha condizionato per settimane. Meglio guardare oltre, anche se davanti ai nostri occhi abbiamo solo sei corridori: quei tre là e quegli altri tre: Evenepoel, Roglic e Vingegaard. Fanno davvero uno altro sport…».
Essere compagno di squadra di Pogacar una gran bella responsabilità.
«Posso dire una figata? Lui è un fenomeno ed è impagabile stare al suo fianco. Cosa mi colpisce? La sua serenità. Il suo essere sempre tranquillo e naturale, mai borioso o pieno di sé. Lui ama correre, chiaramente per vincere. Se non ci riesce, nessun dramma: ci si riprova».
A proposito di fenomeni, per il titolo europeo di Glasgow nel 2018 sei riuscito a battere nientemeno che Van der Poel e Van Aert.
«Altra corsa, e mi andò bene».
Tadej per vincere il Fiandre ha il dovere di lasciarsi quei due alle spalle.
«E non sarà facile, anche se Tadej ha i numeri per fare la differenza sul Paterberg o il Vecchio Kwaremont. Una cosa però è certa: Van Aert ha la squadra più forte: occhio alla Jumbo Visma».
E la Soudal Quick-Step.
«Al pari della Trek-Segafredo non staranno lì a guardare».
Neanche la Uae Emirates…
«Chiaro che sì. Pensate davvero che Tadej possa fare una corsa anonima?».
Ad agosto a Glasgow ci sono i Mondiali: torni a casa.
«Si correrà su un circuito diverso da quello degli europei, anche se spero di far parte della spedizione e farò di tutto per farmi trovare al top. So che il CT Bennati lo ha provato. Non è duro, non c'è grande dislivello, ma potrebbe essere il meteo la vera variabile». Speriamo lo sia anche l'Italia.
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