Se fosse un poeta sarebbe Prévert, che parlava d’amore, scrivendo con il cuore. Se fosse un fisico sarebbe Albert Einstein, che sapeva vedere anche al di là dei buchi neri. Se fosse un pittore sarebbe naif come Antonio Ligabue. Se fosse un inventore sarebbe come Emmett “Doc” Brown, l’eccentrico protagonista di “Ritorno al futuro”, con quella sua chioma color della neve che ovatta tutto, anche i cattivi pensieri.
Ugo De Rosa è uno dei più grandi maestri artigiani del made in Italy nel mondo. Uno dei più apprezzati e riconosciuti telaisti di casa nostra, anche se non ha mai fatto nulla per apparire. Ha sempre lasciato che a parlare fossero le sue creature, i suoi telai, le sue biciclette: preferiva che fossero i suoi ragazzi, i corridori, a parlare per lui.
Lo volle Eddy Merckx, questo è bene dirlo. Una volta che Ernesto Colnago decise di lasciare la Molteni per migrare verso nuove avventure con i bianconeri della Scic e quel Baronchelli che si trovò ben presto a duellare con il Cannibale, il belga chiese che la sua bicicletta fosse toccata solo dalle mani sapienti e ispirate di una delle persone più modeste e schive del mondo delle due ruote: Ugo De Rosa.
Ugo qualche corsa in bicicletta con le maglie della Niguardese e dell’Arconatese, per accontentare papà Emilio, grande appassionato di ciclismo, l’ha anche fatta, anche se papà per il suo figliolo avrebbe preferito un posto sicuro in Pirelli, dove appunto Emilio lavorava come addetto alle caldaie. Dalla sua parte Ugo aveva mamma Maria, detta “Marietta”, che per il suo figliolo era pronta a fare qualsiasi cosa pur di renderlo felice. Fa insomma quello che ogni buona mamma farebbe: mettere il figlio nelle condizioni di realizzare il proprio sogno. Quindi, asseconda la passione del suo rampollo.
Ugo vuole fare il meccanico, nessun dubbio. Più che cavalcarla, Ugo la bicicletta ama smontarla e rimontarla. E lo fa con facilità e abilità non comuni. Non c’è pezzo che non conosca, non c’è vite che smarrisca. Non c’è materiale che lo metta in difficoltà, così come non esiste cosa che non sappia fare. Ugo abita in zona Niguarda, a Milano. Frequenta con discreto profitto le scuole di avviamento professionale alla Ercole Marelli e, una volta finite, si avvia verso un futuro che lo vede solo e soltanto in mezzo alle biciclette. Pedala forte il ragazzo, nel senso che, nonostante sia di poche parole, di mani è un drago: abile e velocissimo come pochi. Se ne accorgono ben presto anche i Fratelli Volta di Dergano - quartiere di Milano, tra la Ghisolfa e la Bovisa - dove Ugo va a bottega per imparare il mestiere. Fa telai di ogni tipo: da corsa e non solo. E nel frattempo anche papà Emilio si mette il cuore in pace: niente Pirelli, che Ugo faccia quello per cui è nato. Faccia biciclette.
Mamma “Marietta” è fondamentale, ma il primo colpo di pedale arriva grazie a papà Emilio.
«È esattamente così. Ho appena diciannove anni e in quegli anni per aprire un’attività, o meglio, per siglare un contratto d’affitto o della luce è necessario essere maggiorenni: bisogna avere 21 anni. Quindi c’è bisogno che papà faccia ogni cosa, che tutti i passaggi burocratici siano portati avanti da lui. È il 1953 ed è in quell’anno che nasce a tutti gli effetti la De Rosa. Nasce in via Lanfranco della Pila 1, zona Niguarda, a due passi da dove abitavo con i miei genitori, in via Antonio da Saluzzo».
Non erano ancora le biciclette con il cuore…
«Assolutamente no, inizialmente nessuna scritta, nessun logo. Poi ho cominciato a scrivere De Rosa, mentre il primo simbolo è stato uno scudetto biancoazzurro con tanto di arcobaleno iridato: sul lato di sinistra campeggiava il biscione di Milano, dall’altro doveva esserci una rosa, ma la tipografia Oppi di piazzale Maciachini, sbagliando, mi disegnò un giglio. Per un po’ l’ho tenuto così…».
Sono anni di grande lavoro in bottega, ma nel frattempo arrivano a bussare alla sua porta anche diverse squadre professionistiche.
«Il lavoro non mi ha mai fatto paura, anzi. Più lavoro e meglio sto: quindi lavoro. Lavoro tanto e con passione. Non sento mai il peso della fatica, perché mi piace da matti quello che sto facendo. La bottega va bene, ma ad un certo punto, per amore, cambio sede: da Milano a Cusano Milanino (piazza XXV aprile, 13), il paese di Mariuccia – per me Uccia – che sposerò nel 1957. Come vede il cuore comincia a entrare nella mia vita, anche perché io le cose le ho sempre fatte per amore e con amore. Sono anni di grande fermento, dove di certo non ci si annoia e se solo si ha voglia di lavorare ce n’è fin che si vuole. A darmi una mano c’è un ragazzo che di nome fa “Peppino”, Giuseppe Russo. Poi prenderò anche un giapponese: Yoshi Aki Nagasawa, detto più semplicemente “Aki”. Nel 1973 faccio le prime biciclette per i team professionistici, anche se avevo incominciato in sordina qualche anno prima. Sono verdi le prime biciclette della G.B.C. di Panizza, Francioni e Turrini. Ma è in quell’anno che vengo chiamato da Eddy Merckx, per il quale già facevo qualcosa. Anche le biciclette di Francesco Moser le realizzo io per anni. Le tre vittorie alla Roubaix arrivano su biciclette nate proprio qui, a Cusano Milanino. Al Giro del ’74, su un centinaio di corridori, quasi ottanta corrono su telai costruiti da me, anche se non sempre marchiati con il nome De Rosa o con il cuore. Ma a me va bene anche così, sono contento lo stesso. Qualcuno ringrazia, altri no. Ma non importa».
Merckx è tipo che ringrazia?
«Sempre e più di tutti. È ciò che di Eddy mi è sempre piaciuto di più: l’educazione. Mai un capriccio, mai una parola fuori posto. Sempre gentile e rispettoso del lavoro svolto dagli altri, nessuno escluso. Era pignolo e competente, ma non ha mai fatto il gradasso, il bullo. Mai. Era Merckx, ma ti considerava suo pari. Rispettoso come pochi. Non tutti erano così, anzi. Meno valevano e più facevano i prepotenti. Io con quelli lì mi divertivo: mai discusso, ma li tenevo a bada. Davano ordini e io mi prendevo il tempo necessario per dare forma ai loro ordini».
Quando conobbe Merckx?
«La prima volta nel 1969, quando lavoravo come meccanico per un’altra équipe. Il ciclismo ancora oggi è una grande famiglia, ma allora lo era ancora di più. Non era poi così difficile incontrare i corridori alle corse, soprattutto Eddy, che di corse ne faceva davvero un sacco, praticamente tutte. In più di un’occasione ci trovammo a scambiare due parole: lui non certo chiacchierone, io tendente sul timido. Però se mi si rivolgeva la parola o mi faceva una domanda, non mancavo di rispondere e qualche consiglio, alcuni scambi di opinione li ho avuti in tempi non sospetti. Insomma, c’era affinità elettiva e stima: mi prese in simpatia. Forse perché ero tipo che stava al proprio posto. Fin quando si è presentata l’occasione: Colnago sta per lasciare la Molteni e Eddy fa il mio nome a Giorgio Albani. Dal ’73 fino a quando Merckx corre, resto al suo fianco. Diciamo che di soddisfazioni ce ne siamo tolte più d’una…».
Chissà quanto champagne avete dovuto stappare…
«Meno di quanto si possa pensare, se non altro per due ragioni. La prima: Eddy correva tanto ed era uno che fin quando c’erano obiettivi da raggiungere restava assolutamente concentrato. E poi era un corridore che vinceva tanto, diciamo pure spesso: ma sa quanto champagne Albani e i Molteni avrebbero dovuto comprare?... Troppo. Quindi, anche per i festeggiamenti, si aspettava il momento buono. Magari alla fine di un ciclo andato bene ci si lasciava andare, ma era Eddy a deciderlo».
Merckx preciso, ma anche molto competente.
«Era un fuoriclasse anche in questo. Con lui era davvero un piacere confrontarsi e lavorare, perché sapeva di ciò che si parlava. Era rigoroso e pignolo: puntiglioso direi. Campioni lo si è in tutto, anche in questo. Le racconto un episodio. Eddy era solito tenere nella taschina posteriore della maglia una brugola. Eravamo alla vigilia di una corsa a Roma. Io avevo usato una vite fermasella di una misura differente rispetto al solito e quindi, la brugola che aveva in dotazione lui non sarebbe andata bene. Passammo quella vigilia alla ricerca della brugola, girammo tutti i negozi della capitale fin quando non abbiamo trovato quella giusta. Non fu semplice trovarla, ma Eddy doveva averla a tutti i costi. Oltre a essere un tipo estremamente preciso, esigente e scrupoloso, era anche un vero gentiluomo: con le sue maniere poteva davvero ottenere tutto dal sottoscritto, come del resto è stato. Adoravo lavorare per lui. Mi gratificava come poche altre cose al mondo. Io ho sempre dato più peso ai modi che ai soldi. I quattrini me li hanno dati in pratica tutti, lavoravo per mantenere la mia famiglia, ma il valore aggiunto era l’educazione e Eddy non mi ha mai fatto mancare il suo grazie. Mi ha fatto lavorare sodo, per anni, ma lo ha fatto con grande passione e piacere. Per lui era normale chiedermi ogni giorno una bici diversa e, nei periodi di gara, arrivava a chiedermi anche le più piccole modifiche da effettuare durante la notte. Per lui sono arrivato a realizzare in una sola stagione anche 50/60 biciclette».
Prima di Eddy tanti altri campioni…
«Avevo alle spalle già diversi anni con corridori e team professionistici. Nel 1958 avevo già lavorato alla Saint-Raphael con Geminiani. Dal ’60 al ’63 alla Faema, prima con l’“Imperatore di Herentals” Rik Van Looy e poi con Angelino Soler. Quindi nel ’64 alla Ibac di Torino con Defilippis, Antonio Suárez Vázquez e Soler. Nel ’65 nessuna squadra, ma l’anno seguente fu Gastone Nencini a chiamarmi alla Max Mayer».
Cosa amava Merckx?
«Che la bicicletta fosse rigida e, soprattutto, che in discesa non flettesse, non si imbarcasse. Ha sempre amato la perfezione e l’ha sempre inseguita. Eddy qualche anno prima era caduto malamente in pista, mentre correva una corsa dietro derny. Ha sempre avuto un piccolo punto debole nella schiena e la bici doveva essere perfetta e confortevole anche se, come molti corridori, si faceva suggestionare dalle novità, dalle soluzioni che venivano prese da altri. Eddy era curiosissimo e voleva provare tutto, non lasciava mai nulla al caso. Pensi che in una tappa del Giro avevo riempito di biciclette un intero furgone Molteni: un “Fiat 238” rialzato. Gli avevo preparato per la tappa successiva la bellezza di quindici biciclette, con tanto di ruote Mavic da 0,7 e 0,9, da 28 raggi legati, o da 32 o 36. Pensi che “Uccia” mi aiutava a preparare quel materiale: lei legava i raggi e io li saldavo. Eddy era felice come un bimbo. “Così posso scegliere tranquillamente”, mi diceva».
Come era il suo rapporto con i Molteni?
«Con il “sciur” Ambrogio parlavo poco, per via del lavoro e della mia timidezza. Con il “sciur” Pietro, invece, ho fatto tante corse, perché a lui piaceva stare in ammiraglia. Persone comunque molto perbene, appassionate, che amavano la squadra e i corridori. Io avevo un rapporto speciale con la signora Olga, la moglie del “sciur” Ambrogio. Lei era le “première dame” del team: competente, affabile e scrupolosa. Una gran donna. Anche con Giorgio Albani il rapporto era buonissimo, perché era un altro galantuomo. A proposito: io volevo andare in macchina solo con lui. Con Bob Lelangue non mi trovavo assolutamente: troppo nervoso, troppo folle alla guida. Io avevo una famiglia e con lui mi sembrava davvero di rischiare ogni volta la vita. Gli dicevo: “Vai piano, perché finiamo in chiesa, ma in una bara…” e lui rideva come un pazzo. Sa come è andata a finire? Che in chiesa ci sono finito per davvero, ma con Giorgio (Albani, NdA). Sbagliò una curva e finimmo in mezzo a candelabri e alle Madonne. Non ci facemmo nemmeno un graffio: pazzesco…».
Qualche graffio se lo fece al Giro, per colpa del “sciur” Pietro…
«Vero! Si fece prendere dall’entusiasmo e alzandosi di scatto io, che ero a cavalcioni con una gamba di qua e una di la e con la bici di Eddy in spalla, sono stato sbalzato dall’abitacolo e sono finito contro una roccia: non le dico la mia mano sinistra. Tutta un ematoma».
Un difficile rapporto con le macchine…
«Guardi, le automobili non mi hanno mai fatto impazzire. Non so quante ne ho avute, ma tutte di color argento. Forse ne ho avuta solo una blu: per me l’una valeva l’altra. Ma a proposito di macchine, le racconto anche questa. Siamo alla vigilia del Giro e c’è da andare a ritirare la macchina da Fiorenzo Magni che ce ne dà una con la “radio-corsa” già installata. Parto con la mia Fiat 132, al mio fianco c’è anche Eddy. Ci fermiamo a Monza, prendiamo l’ammiraglia allestita da Fiorenzo e ripartiamo. Quando torno dopo tre settimane di Giro per riconsegnare l’ammiraglia e riprendere la mia macchina, scopro che Fiorenzo l’ha venduta. In compenso mi piazza una nuovissima Lancia Hpe: che personaggio, Fiorenzo… E se vuole, le racconto anche un’altra cosa, che riguarda Eddy e il suo rapporto con le macchine».
Dica.
«Per qualche anno abbiamo trascorso le vacanze assieme, nel Sud Italia. Ricordo che andammo a Sapri e a Palinuro, in Campania, piuttosto che in Calabria. Con lui la moglie Claudine e i figli Axel e Sabrina. Ed è proprio in Calabria che le nostre strade si separano: loro devono ritornare in Belgio e noi a Milano. Loro con una bellissima Mercedes 6000 di cilindrata e noi con la nostra Fiat 132, non ancora venduta da Magni. Ricordo che non facciamo a tempo a varcare la porta di casa che suona il telefono. Era Eddy che soddisfatto mi informava: “Noi siamo arrivati…”. “Anche noi”, gli rispondo. Solo che Eddy aveva dovuto fare quasi mille chilometri di più: amava andare veloce. Anche in macchina».
A proposito di casa in Belgio, ma lei è stato anche a casa di Eddy per formare i suoi operai nella neonata azienda di biciclette di Merckx.
«Verissimo. Andai a Meise, nella banlieue di Bruxelles, dove Eddy decise di metter su la sua azienda di biciclette. Aveva acquistato un’antica fattoria del Tredicesimo secolo. In un’ala di questa bellissima fattoria, dove prima c’erano state le scuderie, aveva dato vita all’officina e alla catena di montaggio. Prima di fare tutto questo, venne lui per tre mesi a Cusano Milanino, per vedere come funzionava, cosa c’era da fare e come andava fatto. Poi andai io da lui. Aveva preso un bel nucleo di ex compagni di squadra, ad incominciare da Jos Huysmans, uno dei suoi fedelissimi. Così come il suo meccanico Pierre De Bruyne. Il direttore della sua nuova azienda era Bob Lelangue, anche se non era ferratissimo di biciclette…».
Al fianco di Eddy non dall’inizio, ma fino alla fine e anche oltre.
«Una volta lasciata la Molteni per chiusura attività, Eddy mi chiese di restare al suo fianco. Tra noi ormai c’era complicità, intesa: non c’era bisogno di parlare tanto, era sufficiente un cenno, uno scarabocchio su un foglio bianco. Restai al suo fianco anche quando passò alla francese Fiat France e anche alla C&A. Fu proprio in occasione della sua ultima stagione agonistica, nel 1978, che Eddy prese in mano tutto. Seguì la nascita di quella formazione belga sponsorizzata da un marchio di abbigliamento - C&A, appunto - da ogni punto di vista, da autentico team-manager. Se per anni si è sempre limitato a dire chi voleva con sé, in questa occasione decise di curare ogni minimo particolare. Trovò lo sponsor e decise di mettere sotto contratto tutti i corridori, ad uno ad uno. Erano diciotto, con i vari Joseph Bruyère, Willy e Walter Planckaert, Eddy Schepers, Guido Van Calster, Frank e Lucien Van Impe. In ammiraglia Rudy Altig e Jozef Huysmans. Correrà in quella stagione solo cinque corse. L’ultima sua apparizione italiana al Trofeo Laigueglia, era il 21 febbraio, edizione numero 15, vittoria per distacco del norvegese della Bianchi Knut Knudsen (alle sue spalle Dino Porrini e Francesco Moser, NdA). Ricordo ancora l’emozione di quella giornata: quando arriva il momento dei saluti non lo si fa mai a cuor leggero, anche se Eddy era contento perché tutti i corridori erano sistemati. Eddy è sempre stato così: in sella alla sua bicicletta egoista come pochi, cannibale, famelico come nessuno, giù dalla bicicletta campione di generosità. L’altruismo fatto persona. Che gran persona. Quel giorno fu carico di saluti, pacche sulle spalle e abbracci. Eddy salutò tutti, poi salì in bicicletta e percorse non più di 200 metri, gli ultimi, tra gli applausi scroscianti dei tantissimi tifosi presenti. A me venne il magone. Gli occhi mi si inumidirono di lacrime che trattenni a stento: Eddy non voleva vedere volti tristi. Voleva che fosse una festa, ma non lo fu compiutamente».
L’ultima corsa il 19 marzo, la data di quasi tutte le sue Sanremo: quattro su sette. Corse in Belgio le Circuit du Pays de Waes.
«Sembrerà strano ai più, ma Eddy prima di un grande impegno era perennemente inquieto. Aveva bisogno di sicurezze. Temeva Gimondi e Fuente, anche Ocaña. Nelle classiche Godefroot e De Vlaeminck. Era il suo modo di rigenerarsi, di motivarsi, di alimentare la propria fame: si rimetteva sempre in gioco. Cercava sempre la perfezione: l’ha inseguita, la raggiunta, ma lui non se n’è mai reso davvero conto. Questa è stata per anni la sua forza».
tratto da «MOLTENI, storia di una famiglia e di una squadra».