Il giorno in cui fu battezzato, il prete, perplesso, borbottò: “Cosa? Jarlison? Impronunciabile. Non ha senso. Cosa avete contro i nomi normali?”. Jarlison Pantano.
Il giorno in cui scoppiò un’auto-bomba, la vigilia della festa della mamma, si trovava in casa e non con i genitori lungo la strada: “Non avevamo abbastanza soldi per fare regali”. Esteban Chaves.
Il giorno in cui si presentò ai Campionati nazionali juniores su pista, non aveva nemmeno le scarpe da ciclismo. Provò quelle della figlia dell’allenatore, gli andavano strette, le usò comunque, e vinse cinque ori su pista e due su strada. Rigoberto Uran.
Il giorno in cui esordì nel professionismo, una cronosquadre alla Méditerranéenne, aveva pedalato per la prima volta su una bici da cronometro solo qualche ora prima, e poi in gara, sotto la pioggia, a sei chilometri dall’arrivo sbagliò strada e i compagni lo staccarono. Egan Bernal.
Il giorno in cui si sottopose a un test in salita per essere ingaggiato da una squadra, si presentò con una bicicletta che pesava 12-13 chili, partì troppo forte e a metà strada si fermò. Nairo Quintana.
Piccoli, magri, muscolosi. Ostinati, tenaci, resistenti. Umili, modesti, poveri. Scalatori. Colombiani. La prima generazione, quella di Efrain Forero, debuttò alla Route de France, l’antenata del Tour de l’Avenir, e dopo quattro tappe i suoi corridori si erano già tutti ritirati. La seconda generazione, quella di Lucho Herrera, si illuminò di immenso sui tornanti di Vuelta e Tour. La terza generazione è quella che oggi, sulle salite, detta legge. Le loro storie di pionierismo, riscatto, rivelazione e successo sono quelle di “Colombia es pasion!”, un’epopea a pedali scritta da Matt Rendell, pubblicata nel 2009 da Editions Grasset & Fasquelle, aggiornata e ripubblicata da alvento/Mulatero nel 2022, con la traduzione di Filippo Cauz (416 pagine, 21 euro).
E’ un altro mondo, quello del ciclismo colombiano. Un mondo che può sembrare antico, semplice, virtuoso. Nutrito di colazioni a pane e “aguapanela”, una bevanda ricavata da concentrato di canna da zucchero. Basato su principi come “la città ti succhia i sogni”. Irrobustito da allenamenti che cominciano alle cinque o alle sei del mattino, e poi correre al lavoro, che significa zappare sotto il sole fino al tramonto. Minato da ritardi nei pagamenti, a volte da impossibilità di pagamenti, una volta risolta caricando tonnellate di feccia sui camion, vendendole e con il ricavato sostenere la squadra. Fatto di emigrazioni in formazioni europee, dunque anche di sottomissioni, consuetudini, gerarchie, invidie.
Un mondo anche letterario, quello del ciclismo colombiano, alla Gabriel Garcia Marquez, l’autore di “Cent’anni di solitudine”, colombiano, premio Nobel. Rodrigo Anacona, il padre di Winner, potrebbe essere stato creato dalla sua immaginazione: “Sono un uomo fortunato. Ho visto morire molti dei miei compagni. Una volta, a Muzo, dei paramilitari mi hanno sparato alla gamba, ma mi provocarono solo una ferita superficiale. Sono arrivato alla pensione e, ora che la ricevo, posso trascorrere il tempo a fare quello che mi piace, cioè andare in bicicletta. Sono grato a Dio per questo”. Per il figlio scelse i nomi Winnen in onore dell’olandese Peter Winnen, terzo al Tour nel 1983, e Andrew in omaggio allo statuitense Andrew “Andy” Hampsten, vincitore del Giro nel 1988. Quando ritirò il certificato di nascita, Rodrigo Anacona si accorse che gli impiegati dell’anagrafe avevano sbagliato. “Poi pensai: aspetta, Winner significa campione, no? E almeno hanno azzeccato Andrew”.
Colombia è ciclismo, il ciclismo è passione, Colombia è passione. E un libro che adesso non manca più.
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