Se la fuga è – e lo è, almeno nel ciclismo - un atto di coraggio e non di codardia. Se la fuga è avventura a costo di disavventure, se la fuga è uno (o due, o tre...) contro tutti, se la fuga è alleanza e complicità fino a trasformarle – all’ultimo chilometro – in tradimento e guerra, se la fuga è evasione non solo dal gruppo ma anche dall’anonimato, dalle gerarchie, dalla rassegnazione, dalla subordinazione. Se la fuga è fatica ma anche eccitazione, illusione ma anche fede, ribellione ma anche natura, istinto, indole, allora Roberto Pagnin rimarrà uno dei nostri eroi. Perché Pagnin era un uomo da fuga, da viva la fuga, da fuga per sempre. Anticipava le volate, trasgrediva gli accordi, cercava aria. Pagnin – avventato - si esponeva al vento. E il popolo del ciclismo, che riconosce chi fugge per bisogno, passione, amore, lo ha nel cuore.
Domenica 23 ottobre (alle 12.30), nel ristorante all’Oasi Campagnola (via Campagnola 5/C, località Campagnola), a Mareno di Piave (Treviso), Pagnin riceverà la Borraccia d’Oro, il premio assegnato dall’Associazione ex ciclisti della provincia di Treviso (presieduta da Germano Bisigato). Dove la borraccia, almeno stavolta, non è il simbolo del sacrificio del gregario per il proprio capitano, ma l’emblema delle energie profuse in tutti quei chilometri divorati davanti al gruppo inseguitore, una specie di aspirapolvere che cerca di inghiottire quell’ansia di libertà, autonomia, indipendenza dei fuggitivi.
Veneziano di Galta di Vigonovo, Riviera del Brenta, papà calzolaio, mamma casalinga, e un nonno appassionato di ciclismo. Un regalo del nonno, la prima bici, di ferro. Roberto le tolse i parafanghi e la trasformò da corsa: “A quel tempo, o pallone o bicicletta, o calcio o ciclismo”. Il nonno, che ci aveva provato in proprio con il pallone, fu convincente: “A calcio, su cento, ce la fanno in due o tre. Nel ciclismo dipende solo da te”. Tant’è: un suo regalo, la seconda bici, da corsa. Pronti? Via. Roberto – “dipende solo da te” - ci mise gambe e cuore. “La prima corsa in paese, a Fiesso d’Artico. Categoria giovanissimi. Sette anni. Un circuito da ripetere un po’ di volte. Nel finale sbagliai strada: un addetto mi indicò di andare da una parte, ma non era quella giusta. Pensava che fossi uno dei doppiati, invece ero in fuga. Tornai indietro, inseguii, rimontai. Terzo”. Roberto non poté neanche prendersela tanto: “La corsa era stata organizzata proprio da mio nonno, allora era anche il vicesindaco del paese”. Da lì in poi, fino a 12 anni da professionista, compresi un Mondiale (a Villach nel 1987) e un’Olimpiade (a Los Angeles nel 1984).
C’è fuga e fuga. Le fughette e i fugoni, le mezze fughe e le grandi fughe. La fuga più dolce? “Alla Tirreno-Adriatico, nel 1986, con la Malvor-Bottecchia. Quattro giorni, quattro tappe. Vinsi la terza tappa, la Monopoli-Alberobello, inseguito a blocco dalla Del Tongo di Saronni, e indossai la maglia bianca di leader, dieci secondi di vantaggio su Beppe. Il giorno dopo fui attaccato dal primo all’ultimo chilometro, c’è chi definì il percorso come un toboga, esasperante. L’arrivo su uno strappo. Vinse, in volata, Saronni, terzo Moser, io finii nel primo gruppo, sedicesimo, ma con lo stesso tempo, e salvai il primato per un solo secondo su Saronni. E pensare che, dopo l’arrivo, Saronni quasi si arrabbiò, me lo potevi dire che ci tenevi così tanto?, e mi confidò, avrei fatto meno fatica”.
E la fuga più bella? “Al Giro del Veneto, che per i veneti valeva quasi come il campionato del mondo, nel 1989, con la Malvor-Sidi. Me la sentivo dentro: una sensazione, anche un sentimento, inspiegabile, c’è e basta, perché se c’è c’è, e se non c’è non c’è. La vigilia, la sera, a cena, mentre gli altri, da Saronni a Contini, facevano piccole eccezioni alle regole, io mi attenni rigorosamente al riso in bianco e alla bistecca. L’arrivo era fissato a Padova. Respiravo aria di casa. Vinsi per distacco, un paio di minuti di vantaggio su Maurizio Fondriest, maglia iridata, campione del mondo in carica”.