Visti il Giro d’Italia con partenza a Budapest e e il Tour de France con partenza a Copenaghen, viste le enormi folle cittadine (in Danimarca assai più che in Ungheria, d’altronde il paese di Amleto è assai più ciclistoso del paese dei ragazzi della via Pal), possibile se non anche opportuno e quasi quasi doveroso, almeno secondo un giornalismo à l’ancienne, pensare ad un nuovo ciclismo e proporlo. Senza presunzione, casomai per amore vero, e neanche mettendo avanti l’esperienza, che di questi tempi poi perde continuamente valore alla luce di scienza nuova, diavolerie nuovissime, incoscienza inveterata, dogmatica cultura internettiana e informazioni false. Nelle righe che seguono offriamo una idea di ciclismo pop ma anche rock, liscio ma anche break dance, tradizionale ma anche classico, ricco il giusto di sofferenza, ammesso che la sofferenza sia una ricchezza (e i fachiri siano dunque i veri magnati del mondo), e insididato dalla pedalata elettricamente assisitita, che presto sarà tutta in una una batteria grossa - nel senso di piccola - come un orecchino da maschietto, e dunque introvabile o quasi.
Il ciclismo deve recuperare le grandi città: da qui in avanti facciamo persino un poco gli iconoclasti, un pochino i blasfemi, pur di essere chiari. E usiamo la prima solennizzante persona plurale che fu dei giornalisti cantori sacri della bici e dei pedalatori. L’ecologia urbana è per questo nuovo ciclismo, e le montagne sono sempre più distanti dalla voglia di comodità, figlia del benessere comunque cercato. Senza più la paura di turbare ii traffico automobilistico, che fra guerre, aumenti del petrolio, evoluzioni non solo delle vetture ma anche della tipologia del lavoro umano, è comunque destinato a drastiche riduzioni. Le grandi città hanno, devono avere voglia di bicicletta, i corpi umani di pedalata facile, di sudore sano. Il progressivo riscaldamento della terra ha svantaggi davvero cosmici ma - speriamo, se non altro - ancora contenibili e diluibili nei secoli futuri, ma almeno in parte risarcisce con il progredire del bel tempo in tanto mondo e la fine o la riduzione delle grandi piogge e dei grandi freddi, comunque cosacce rubricate come nemiche della bicicletta.
Dunque grandi città, e diremmo più circuiti cittadini che velodromi per la pratica decisamente sportiva, velodromi che sembrano posti da criceti frenetici impegnati su piste brevissime. Le montagne, le grandi salite, le maratone dei pedalatori? Tutto ormai riducibile, comprimibile in qualche metaverso, e pazienza se pochi sanno bene cosa è. Un Galibier nel salotto di casa è possibile, su rulli sensibilizzati, tarati sulla grande salita. In paragone ad una gran fondo, spese minime, rischi minimi, stessa fatica sana. Vero che tra poco si potrà magari pedalare dove adesso si stanno ritirando i ghiacciai, ma vero anche che sudare a casa è comodo e costa assai meno. In fondo si torna all’isometria, la ginnastica in spazi minimi che ebbe fortuna alla fine del secolo scorso, il muscolo allenato serrando in ufficio una matita, a tavola una forchetta (e mettendocela si capisce tutta).
Circuiti cittadini sicuri, senza rotaie dei tram ormai oggetti per una veicolazione curiosa, tipo vintage. Pericoli ridotti, anche se intorno ci sono le case. La stessa formula 1 sta addirittura (ri)scoprendo i circuiti cittadini: e dire che sino a ieri l’altro si pensava all’abolizione del Gran Premio di Monaco-Montecarlo per via della troppa gente troppo vicina ai bolidi.
I circuiti, contenibili in parchi ad hoc, possono ospitare anche difficoltà interessanti altimetriche o simili: come già avviene in certi circuiti del Mondiale. D’altronde le palestre artificiali di roccia per alpinisti di città sono una realtà, ormai. La varietà degli ostacoli porterà ad una varietà di biciclette, comunque già avviata eccome, e con costi subito alti: velocipedi da strada pura, da strada accidentata, da montagnola, da cross, da acrobazie, e pazienza se talora da circo. Già adesso la bicicletta classica ha tante sorelle neanche troppo gemelle, e dopo il mutamento dei materiali che la costituiscono c’è ora quello proprio dell’aspetto.
Possibile persino sperare che la divisa classica del ciclista venga rivista, quella di adesso fa sorridere e anche ridere, nonostante i bei colori dei tessuti. Non sappiamo come può essere variata, sappiamo che bisogna variarla. E chiudiamo con questa autolimitazione, con questa confessione che sembra un escamotage onde evitare la lapidazione immediata, e invece ci deve appartenere seriamente, specie quando vediamo in tivù come sono belli e bene vestiti gli atleti di quasi tutti gli altri sport, donne e uomini.
Ah, le donne. Dimenticavamo che il ciclismo nuovo deve tenere conto di esse come non mai nel passato, e che se gli uomini non si sbrigano decideranno loro, le donne, le femmine come e dove pedalare, e soprattutto come abbigliarsi per non far troppo ridere.
da tuttoBICI di agosto