Trofeo San Pellegrino Sport del 1957. Era una specie di Giro d’Italia per dilettanti. Una decina di corse in una decina di regioni italiane. I primi dieci si qualificavano per la finale. E il vincitore della prova finale, a tappe, quell’anno, fu lui: Giorgio Menini, veronese di Minerbe, vent’anni compiuti il 9 gennaio. “La penultima tappa partiva da Modena e arrivava a Milano, al Vigorelli. Tra la pista e la gente, la corsa e la classifica, adesso posso dire che è stata la più bella vittoria della mia vita”. Era nata una stella.
Menini ha 84 anni, abita sempre nel Veronese ma a Vigo di Legnago, è stato il papà ciclistico di Massimo Ghirotto e Fabrizio Verza, potrebbe essere considerato il nonno di Elia Viviani e Davide Formolo, e se ripensa al San Pellegrino, al Vigorelli e al ciclismo, un po’ si commuove, è come se rivedesse il film della propria esistenza. E quella stella si spense troppo in fretta.
Pronti: “La prima bici da un artigiano di Legnago, Bartolomeo Mora detto Bottolo, adesso ne è rimasto un negozio di articoli sportivi, Mora Sport”. Al posto: “La prima corsa da esordiente, vicino a Verona, nel 1953”. Via: “Alla quarta corsa, a Tombetta, la prima vittoria”. E poi: “I campionati provinciali, regionali e nazionali del Csi”.
La passione: “Ereditata dal papà, contagiò me e mio fratello, inserito nel quartetto della 100 chilometri dilettanti ai Mondiali 1969 di Brno, in Cecoslovacchia, vinta dai quattro fratelli svedese Pettersson, e poi contagiò anche mio figlio. La passione è l’unica malattia che fa bene al corpo, alla testa, alla vita”.
Le società: “La Salus di Legnago da esordiente e allievo, la Lanerossi, l’Isalberti e la Coin da dilettante. Poi la San Pellegrino da professionista, 50 mila lire al mese per dieci mesi, c’era poco da discutere, era già un grande privilegio passare al professionismo, ma al vincitore del Trofeo San Pellegrino Sport quel passaggio spettava di diritto. Gino Bartali direttore sportivo, dieci corridori, e ogni anno i dieci corridori venivano cambiati”.
Bartali: “Parlava sempre, parlava anche quando beveva e fumava. Ma beveva solo vino buono e fumava solo qualche sigaretta. Gli volevo bene. Era come un secondo padre. Mi insegnava a soffrire e a sperare, lezioni il pomeriggio dopo gli allenamenti o le corse, la sera a tavola, o nei ritiri dalla mattina alla sera. Ci diceva quando sbagliavi, ci spiegava dove sbagliavi, ci insegnava come non sbagliare”.
Coppi: “Quando cominciai, lui c’era ancora. Feci una fuga, lunga, lunghissima. Quando venni ripreso, Coppi mi disse: ‘Se solo avessi il tuo fiato, rivincerei il Giro d’Italia’. Su un annuario della ‘Gazzetta dello Sport’ – che onore - c’è una foto con Bartali, Coppi, me e un giornalista della ‘Gazzetta’, dopo la mia vittoria al Vigorelli”.
Il ciclismo: “Dai tempi di Bartali erano passati pochissimi anni eppure era già tutto cambiato. Come il giorno e la notte. L’alimentazione: mangiavamo riso in bianco, bistecca ai ferri o pollo arrosto. Gli allenamenti: si andava a ore o a chilometri, le mie salite erano da Bassano del Grappa per il Pasubio e da Schio per il Pian delle Fugazze, i miei compagni di allenamento Renzo Accordi e Renato Giusti”.
Il Giro d’Italia: “Il primo Giro nel 1958. Avevo vent’anni. Guadagnai traguardi volanti e a premi. Andai meglio al Giro di Svizzera, un terzo e un quarto di tappa e l’ottavo della generale. La prima vittoria al Giro dei Due Mari, l’antenato della Tirreno-Adriatico. Vinsi la tappa di Riccione. Ero andato in fuga, venni ripreso a dieci metri dall’arrivo, ma feci ancora in tempo a passare il traguardo per primo, ormai in volata e non più per distacco. Altre vittorie ai circuiti di Treviso e Milano. Il secondo Giro nel 1961. Ma non lo finii. Un’infiammazione al soprassella si era estesa fino al ginocchio, non riuscivo più a pedalare”.
Fra amarezze (“Giro del 1958, premiarono Guido Carlesi come il corridore più giovane, ma non era vero, ha due mesi e due giorni più di me”) e rimpianti (“La Parigi-Roubaix, tre volte, nel 1958 ero con Rik Van Looy, che poi avrebbe vinto, quando fui speronato da una macchina e finii in un campo”), delusioni (“Nel 1959 ero passato alla Ignis, 200 mila lire al mese, ma c’era il servizio militare. Smisi, ricominciai, nulla sarebbe più stato come prima”) e dispiaceri (“Abbandonai a 24-25 anni quando gli altri diventavano professionisti”), un po’ di filosofia (“Il bello del ciclismo? La passione”) e un po’ di scienza (“La fatica del ciclismo? Se non la provi, non sai che cos’è”), Menini al ciclismo è ancora legatissimo: “Lo sport più bello da guardare alla tv. Tant’è che non me ne perdo una”.