Antonio Scolaro, padovano di Montagnana (anche se nato nel Vicentino), era un pioniere. Cominciò a correre a diciannove anni, si laureò campione veneto di resistenza fra i dilettanti, da professionista ebbe poca fortuna, partecipò da isolato al primo Giro d’Italia, era il 1909, ma nella seconda tappa cadde si si ritirò. Si rivelò più forte nelle bocce e nel tiro, nel 1936 fu addirittura campione del mondo nel tiro al piccione.
Giuseppe Rizzo, padovano di Stanghella, era un entusiasta. Nel 1924 partecipò al Giro d’Italia, anche lui da isolato, anzi, da diseredato come si diceva quell’anno in cui i professionisti avevano disertato la corsa per problemi di ingaggio e “La Gazzetta dello Sport” aveva aperto le iscrizioni a tutti, anche a una donna, Alfonsina Strada. “El Pampe” (lo chiamavano così, chissà perché), si classificò ventiquattresimo e, tornato in paese, fu festeggiato con la fanfara, fra canti e danze, perfino portato sulle spalle, in trionfo, nella piazza centrale.
Gino Saoncella, padovano di Casale di Scodosia, era un pollivendolo. E arrivò al ciclismo proprio grazie alla sua attività di pollivendolo: caricava fino a duecento chili di volatili, cento davanti e cento dietro, e così senza volerlo allenava la sua potenza. La prima corsa la disputò con una bici avuta in prestito da un cugino meccanico assemblando pezzi d’occasione. Dopo una decina di anni di sacrifici economici, stufo marcio decise di smettere: vendette la bici a un passante e tornò a casa in tram.
Aldo Canazza, padovano di Crosara di Stanghella, era una testa matta. Gareggiava con Binda e Guerra, sprintava con Di Paco e Battesini, ma quante disavventure: durante la guerra, eluse il richiamo alle armi, si nascose, fu individuato e deportato in Germania, qui assegnato in servizio da un graduato nazista, s’innamorò della sua donna e finì male. Tornato in Italia e alle corse, fu arrestato al Vigorelli per contrabbando di sigarette.
“Storia del ciclismo padovano”: un’opera del 1989, scritta da Tarcisio Caron, presentata da Gino Bartali, pubblicata da La Galiverna (e regalatami da Ivan Malfatto), è una miniera di episodi, un patrimonio di competizioni, un’enciclopedia di corridori, un tesoro di vite vissute in bicicletta. Come quella di Giacomo Zampieri, padovano di Agna, soprannominato “bomba”, “bombolo” o “panettone” perché piccolo di statura e rotondo di vita. Come quella di Sante Ferrato (nella foto), padovano di Tribano, che nel 1925 si aggiudicò la Milano-Padova arrivando così in anticipo che i cancelli del velodromo Monti erano ancora chiusi. Come quella di Lino Polone, padovano di Stanghella, che per andare e tornare dalle corse era accopagnato dal fratello Angelo su una bici considerata “un rudere”, “senza accessori e senza freni”, ma “con nel cuore tante belle speranze”, “anche su distanze di 150-200 km”, “con pesanti portapacchi carichi del necessario per far fronte alla fame, alla sete, ai fenomeni atmosferici”. Risultato: “giungono nel luogo di gara spossati fisicamente ma contenti di vivere momenti esaltanti”.
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