A Reggio Emilia ci aveva fatto emozionare tutti: Alberto Dainese, classe ’98 e al secondo anno con il team DSM, non solo aveva regalato la prima vittoria tricolore in questa edizione della corsa rosa, ma aveva dimostrato una volta per tutte che di stoffa ne ha da vendere. Non è stato di certo il Giro a dire al mondo che nei prossimi anni può essere veramente il nostro atleta di punta per le volate, eppure in qualche modo lo ha consacrato urlandolo a gran voce. In molti si sono ritrovati a scoprire un ragazzo che negli scorsi anni ha accumulato piazzamenti su piazzamenti battendo i grandi maestri dello sprint, una giovane carriera costruita passo dopo passo e che ora finalmente sta prendendo il largo. Alberto non ama parlare molto, ma preferisce dimostrare su strada quello che realmente è. Se molti ragazzi alla prima vittoria tra i grandi rischiano di sentirsi già arrivati e di montarsi la testa, lui è l’esatto opposto, la sua strategia è la classica del “fly down” (o del volare basso come diciamo noi italiani) perché nel ciclismo come nella vita occorre imparare continuamente. «Nello sport è facile essere dimenticati, occorre tenere i piedi ben piantati in terra, sapere chi sono e da dove arrivo, mai dare nulla per scontato, non è così facile ripetersi» ci dice Alberto spiegandoci come dietro quella vittoria al Giro ci sono anni di sacrifici. Ora una nuova sfida lo aspetta; il Team Dsm lo ha selezionato per la Grand Boucle, un’occasione veramente speciale in una stagione piena di impegni, sicuramente proverà a lasciare il segno.
Sei stato uno dei grandi protagonisti del Giro, come sono andate queste settimane dopo il grande arrivo a Verona?
«Ammetto che dopo il Giro ero un po’ stanco, ma nonostante tutto ho continuato ad allenarmi perché sentivo che la condizione era buona e dovevo assolutamente sfruttarla. Sono partito per il Belgio dove non ero freschissimo ma ho comunque raggiunto due buoni piazzamenti nei primi dieci e considerando che praticamente non mi sono mai fermato un attimo sono degli ottimi risultati. Ho cercato più che altro di dare un po’ di spunto alla gamba, poi tornato a casa ho calato con gli sforzi, solo ora ho ripreso a fare un po’ di dietro moto per partire bene in vista dei prossimi grandi appuntamenti».
Un Giro del Belgio che non è stato certo risparmiato della nuova ondata di covid…
«In effetti non è stata una gara facile, molti atleti si sono ritirati e noi in squadra abbiamo finito la corsa a tappe in 3. Quando si è in così pochi è anche difficile provare a gestire una volata perché praticamente un treno non esiste, ho cercato di arrangiarmi, ma ciò che di più è mancato è stato il correre insieme con tutta la squadra. Ho sentito che molti team hanno imposto protocolli ferrei da adottare in vista nel Tour, ma alcuni mi sembrano addirittura esagerati. Sono dell’idea che debba prevalere in ogni caso il buon senso, tutti sappiamo che dobbiamo tenere le distanze e in determinate occasioni ancora indossiamo le mascherine, ma tutto sembra comunque non bastare ed è per questo che non si può abbassare la guardia».
A proposito di Tour, sarai proprio al via con il tuo team, quant’è l’emozione?
«Davvero tanta, inutile negarlo, lo sapevo da qualche tempo e sono contento che sia finalmente ufficiale. Nel cuore c’è sempre il Giro che è la gara di casa che sognavo sin da bambino, ma mediaticamente parlando il Tour è tanta roba. L’ho sempre visto come una macchina gigantesca, mi ricordo che da bambino nei pomeriggi d’estate a casa dei nonni di vedeva sempre la Grande Boucle, spesso tappe infinite, ma affascinanti»
Quale sarà il tuo ruolo in squadra?
«In squadra ci sono atleti fortissimi, degli autentici campioni, ma la questione volate sarà tutta riservata a me. Purtroppo quest’anno per noi velocisti non ci sono tantissime possibilità, ma cercherò di sfruttarle tutte al meglio. Le prime a mio avviso sono le migliori per me, in particolar modo la seconda e la terza, le ultime due frazioni in Danimarca, anche se occorrerà stare molto attenti sui ventagli. Al Giro d’Italia mi sono dovuto un po’ arrangiare, ma per il Tour proveremo a costruire un vero e proprio treno, abbiamo lavorato in molto con la squadra proprio in quest’ottica. E poi non dimentichiamoci che c’è il grande arrivo agli Champs Elysée, a differenza della altre grandi corse a tappe quello è il vero stimolo per tutti i velocisti per arrivare fino alla fine, per me già poter disputare quella volata è un sogno. Nel mio team ci saranno anche John Degenkolb che punta alle tappe più mosse come quella del pavè e Romain Bardet che spera di far bene in classifica generale anche un po’ per rifarsi dall’esito della corsa rosa».
Sei ormai al terzo anno nel World Tour con il team Dsm, quanto ti senti cresciuto?
«Tantissimo. Sento di essere maturato molto non solo fisicamente, ma a livello di esperienza. Con il team dsm ho fatto corse a livello internazionale che mi hanno fatto capire i tempi di recupero e quelli di gara. Con il tempo un atleta inizia ad imparare come gestirsi non solo in corsa ma soprattutto a casa dove occorre sapere allenarsi bene, sono dell’idea che nonostante si abbiano a disposizione tutti i mezzi con la tecnologia più avanzata, alla fine è il corridore che fa la differenza. Bisogna sempre correre di testa».
Possiamo considerare la tua partecipazione alla Vuelta 2021, tua prima corsa a tappe, come una specie di spartiacque?
«In un certo senso sì. Quelle tre settimane di corsa sono state una svolta importante perché ho provato cosa significa dover reggere tre settimane di gara e soprattutto ho capito che mi trovo bene nei grandi giri. Le volate a livello di squadre sono più lineari e soprattutto non mi pesa affrontare uno sprint anche se il giorno prima abbiamo fatto molti chilometri di salita. A tutti può capitare una giornata storta, fortunatamente al Giro è andato tutto liscio e non ho mai sofferto, anzi ho recuperato sempre molto velocemente. La salita non è il mio terreno, ma rispetto alla media dei velocisti pure tengo un po’ di più, non devo lottare contro il tempo massimo, ma posso entrare tranquillamente nel gruppetto per risparmiare un po’ di forze, tutto questo nei grandi giri può essere molto d’aiuto».
Prima della Dsm hai militato dalla fine del 2018 alla SEG Cycling Academy. Cosa ti è rimasto di quella esperienza?
«Nel 2018 dopo che avevo vinto una tappa al Giro Under 23, non avevo molte offerte di squadre World tour e così ho accettato l’offerta della Seg, una squadra continental che nella categoria era una dei migliori per i giovani. È stata una scelta difficile perché ho dovuto trasferirmi all’estero, lontano da casa, ma con il senno di poi penso che sia stata la cosa migliore da fare. Ancora oggi porto i segni di quell’esperienza, c’è molto di loro in quello che sono oggi, hanno allargato la mia visione non solo del ciclismo, ma del mondo in generale facendomi crescere anche come persona».
Più volte hai parlato della tua passione per il basket, hai ancora tempo di seguirlo?
«Da bambino ho giocato diversi anni fino a poco prima delle superiori, è sempre stato uno dei miei sport preferiti. Poi con il tempo ho capito che non era la mia strada, vedevo tutte le partite in televisione, ma ora non ho più il tempo, ho visto giusto qualche giorno fa i replay delle finals, ma niente di più. Il ciclismo mi ha preso al 100%, non so cosa sarebbe successo se avessi continuato con il basket, ma più vado avanti mi rendo conto che ho fatto la scelta giusta».