Giro d’Italia. Quello del 1960. Lunedì 23 maggio si corre la quinta tappa, la Pescara-Rieti, 218 chilometri, con tanto di Terminillo. Alle sei di mattina, Massimiliano Becchi va e viene dal bagno. Dissenteria.
Fa niente, si dice. Passerà, si augura. Ce la farò, si incoraggia. La firma del foglio di partenza, poi la partenza. Ma è vuoto. Spinge a vuoto. Pedala a vuoto. Gli è impossibile perfino quella che certi giornalisti definirebbero andatura turistica. Tant’è che dopo qualche decina di chilometri, sulla strada per Popoli, scende dalla bici e sale sull’autobus-scopa.
Se esistesse una macchina del tempo, se il tempo fosse un film da poter riavvolgere e poi modificare, Massimiliano Becchi ricomincerebbe da lì, da quel lunedì di maggio, da quell’albergo di Pescara, da quel mal di pancia inspiegabile per un corridore così attento, così preciso, così obbediente alla vita da atleta.
Sessantadue anni dopo: Cavriago, campi e capannoni alla periferia di Reggio Emilia, Becchi si racconta. “Papà contadino, mamma casalinga, io quarto di quattro figli, due maschi e due femmine, quinta elementare, poi a lavorare, a 12 anni verniciatore in carrozzeria, a 14 anni in regola, a 16 anni la prima bici, una Marastoni, verde metallizzata come tutte le Marastoni, 23mila lire usata perché nuova sarebbe costata 40mila, pagata con i soldi che mio fratello avrebbe dovuto versare al Consorzio e ripagata con le nostre paghe. A 16 anni la prima squadra, il Velo Club Reggio diretto da Otello Prampolini, uno che se ne intendeva, se 15 dei suoi allievi sono passati professionisti. E a 16 anni la prima corsa, a Cavezzo. E a 16 anni, proprio in quella prima corsa, la prima vittoria. E l’ostilità di mio padre verso le corse – tempo sprecato, sosteneva – trovò uno spiraglio”.
Era il 1954. Il primo anno, da esordiente, una vittoria, quella, in cinque corse. Il secondo anno, da allievo, una vittoria alla prima corsa della stagione. Il secondo anno, ancora allievo, otto vittorie. Il terzo anno, da dilettante, quattro vittorie. Il quarto anno, il secondo da dilettante, passato alla Giglio, altre quattro vittorie. Il quinto anno, l’ultimo da dilettante, sempre nella Giglio, otto vittorie. “Era il 1959. Fra l’altro, quarto nel Trofeo San Pellegrino. Gino Bartali mi chiese di diventare professionista con lui. Avrei corso in squadra con Fausto Coppi e Meo Venturelli. Ma già un anno prima avevo firmato per l’Atala. E mantenni la parola. E con l’Atala partecipai al Giro del 1960. Il direttore sportivo era Alfredo Sivocci, milanese, con le sue idee, forse un po’ arretrate, e le sue preferenze, per i corridori veneti. Partii come gregario di Vito Favero, secondo al Tour de France 1959, ma in parabola discendente. Sivocci ci rimase male quando mi ritirai prima del Terminillo. Ma io, che ero diciottesimo in classifica, ci rimasi peggio. Tanto più che, un’ora dopo che ero salito sull’autobus-scopa, il mal di pancia era scomparso. Intanto aveva abbandonato anche Venturelli. Per lui, a tentare di convincerlo a rimanere in corsa, si era speso, ma invano, anche Giuseppe Ambrosini, direttore della ‘Gazzetta dello Sport’ e direttore di corsa”.
Un solo anno da professionista, Becchi, in quel 1960. “Poi il servizio militare, a Roma, nella Compagnia atleti, e tre anni da indipendente, a mie spese, con i soldi guadagnati nell’Atala, 80mila lire al mese per 10 mesi, quando un operaio ne prendeva 30mila però per 12 mesi. Finito il credito, appesi la bici al chiodo e mi dedicai al lavoro. Lattoniere”.
Ma quanti ricordi a forza di pedali. La preparazione: “Quella invernale da Giannetto Cimurri a Reggio Emilia. Ginnastica preciclistica, in gennaio, tre volte la settimana, gratis. E poi camminare, pedalare nei campi senza forzare, l’importante, predicava Giannetto, era non fermarsi mai”. Le salite: “Le mie, dove mi specchiavo, erano Barigazzo, Sestola e Cerreto. La più dura, il Muro di Sormano, per metà tutto il gruppo a piedi tranne Imerio Massignan”. La sfortuna: “Giro 1960, crono di Sorrento, spaccai la ruota libera e dovetti aspettare l’ammiraglia persa chissà dove”. La cotta: “Nel 1959, dilettante, in Toscana, non andavo più avanti, volevo smettere di correre, invece la domenica dopo vinsi”. La tattica: “Per essere sicuro di vincere, dovevo staccarli tutti”. Il segreto: “Trofeo San Pellegrino 1959, la Palermo-Messina, 240 chilometri, cambiai di quasi niente la lunghezza delle pedivelle e mi venne la tendinite, Bartali mi disse di pedalare duro, recuperai 2’30”, ma la sera mi vennero due caviglie da elefante, tornai a casa e Cimurri mi fece un impacco di ovatta, garza e nylon conditi con i suoi oli e balsami naturali, e la tendinite scomparve”. Il borraccino: “Due caffè e una china, da prendere negli ultimi 30 chilometri. Faceva effetto perché i caffè non li prendevo mai”. Le regole: “Conservo una lettera in cui Sivocci raccomandava ‘dovrai presentarti con la bicicletta in ordine non essendoci il meccanico’. Io, alla bici, ci tenevo moltissimo. Tant’è che un giorno il meccanico mi disse: ‘Se i corridori fossero tutti come te, avrei già perso il posto’”.
Su tutti e tutto, c’era Venturelli: “Trofeo Pizzoli, lui due volte primo, io due volte secondo. ‘Dai, che lo prendiamo’, mi dicevano gli altri. ‘Sì, ma sul palco’, gli rispondevo io. Meo era un tipo strano. Genova-Roma del 1960, alla partenza della Forte dei Marmi-Reggio Emilia, mi disse: ‘Oggi vinco e mi ritiro’. Vinse e si ritirò. Giro del Frignano del 1959, a Sestola avevamo 3’ dagli uomini in fuga, ‘Ci proviamo?’, mi domandò Meo, a metà Barigazzo li acciuffammo e poi tirammo diritto, Prampolini si affiancò sull’ammiraglia e mi ordinò ‘Staccalo, ché non sta bene’, gli risposi ‘Per fortuna che non sta bene’, io tiravo 100 metri, lui un chilometro, e infatti fu lui a staccare me”.
Becchi non va più in bici ma dalla bici non si è più staccato: 20 anni da presidente della Società ciclistica Cavriago e ancora presidente onorario. “Il bello della bici è che fa diventare uomini e donne nella vita e nel lavoro”.
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