Tappa a dir poco superlativa. Già di base c'è veramente tutto per un grande lavoro: fondo stradale tirato con la lucidatrice, un lisciume che Milano e Roma si sognano la notte, tabelloni luminosi con frecce lampeggianti alle curve più sinistre, cinque colli, saliscendi continui, paesaggi da lasciarci cuore e vista, divino panozzo con porchetta a bordo strada davanti alla chiesetta di Ari, e sole, tanto sole.
Cornice ideale per un quadro adeguato. Sostanzialmente è la prima tappa del Giro 2022. La prima vera. La prima superba. Una di quelle che senza tanti se-ma-però dividono i migliori dai peggiori, mandano avanti i più forti e lasciano indietro i peggiori.
L'ordine d'arrivo, ma più ancora la nuova classifica generale, ci dicono soprattutto una cosa, che peraltro sapevamo già tutti prima ancora di attaccare al collo l'accredito: un dominatore, una parvenza di Pogacar, qui intorno non c'è.
Il Blockhaus, montagna vera, sancisce in modo definitivo una gestione “assembleare”. Sul traguardo a giocarsi la tappa si presentano in sei, in classifica sono otto in un minuto. Se non è democrazia questa. Il problema è che la democrazia risulta fantastica nei sistemi politici, ma diventa piuttosto fiacca e noiosa nello sport. Livella, appiattisce, ammoscia. E se nello sport c'è un settore che invece ha bisogno vitale di un grande individualista, meglio ancora di un dittatore, questo è il ciclismo.
Invece qui ai millesei del Blockhaus c'è un grande assembramento, una cosa che ai tempi del lockdown rigido le forze dell'ordine avrebbero sanzionato pesantemente.
Non si separano, non si distanziano. Sono tutti ammassati e non c'è verso di dividerli.
Nemmeno il caso di specificarlo: siamo appena a metà Giro, il peggio deve arrivare. Ma questa è solo un'attenuante. Niente che comunque giustifichi tanto affollamento dopo nove tappe. Non dopo un tappone come questo. Dunque, si può ancora dire tutto e il contrario di tutti. Se Lopez tiene ancora la maglia rosa, per quanto bravo si stia dimostrando, è comunque il chiaro segno che là davanti, là sopra, in quello che per carità di patria non possiamo chiamare olimpo dei big, domina il livellamento più assoluto: lo dimostra il fatto che quando uno di loro attacca, dopo un po' da dietro rientrano puntualmente.
Non è un dominatore Carapaz, che pure ha la squadra di una spanna sopra le altre. Non lo è nessun altro. Sono tutti bravi, da Bardet a Landa, da Hindley ad Almeida, ma non emerge un bravissimo.
In tutto questo, l'Italia del Giro. Niente Ciccone, nemmeno a parlarne. Il nostro futuro, quanto meno il nostro presente, ha il fascino antico del passato. Incredibile a dirsi e a vedersi: nell'ammassamento del Blockhaus, la nazione afflitta del ciclismo azzurro si ritrova a commuoversi per Nibali e Pozzovivo, quasi trentotto anni e quasi quarant'anni. E' una meravigliosa e tremenda notizia. Meravigliosa perchè ci dice quanto coraggio, quanta passione, quanta resistenza abbiano ancora nel serbatoio questi due nonni d'Italia. Tremenda, molto tremenda, anzi insopportabile, perchè conferma nel modo più impietoso quali siano le nostre prospettive.
Se non si danno una svegliata le mamme d'Italia, finirà che andiamo tutti in ginocchio sotto la finestra di Nibali per implorarlo di continuare ancora un po', almeno un dieci-vent'anni.