Con due anni di ritardo sulla tabella di marcia causa pandemia, il Giro d’Italia scatta dall’Ungheria: è la quattordicesima partenza dall’estero, cinque anni dopo l’ultima, in Israele, prima volta in assoluto di una grande corsa a tappe fuori dal Vecchio Continente. Si comincia a Budapest, capitale di un Paese che ha appena confermato alla guida Orban nonostante la vicinanza a Putin, la posizione antieuropeista e l’introduzione di leggi che violano i diritti umani. Da lì muoverà un Giro che proporrà poca cronometro (26 chilometri in tutto, fra quella del secondo giorno in Ungheria e quella che chiuderà la corsa a Verona) e tantissima salita: oltre 50mila i metri di dislivello, con sei arrivi in quota (Etna, Blockhaus, Cogne, Aprica, Lavarone e Marmolada) e molta montagna nel mezzo. Giro in cui bisognerà farsi trovare subito pronti, più aperto rispetto ad altri perché gli specialisti più bravi, a cominciare dal fenomeno sloveno Pogacar e dal suo connazionale Roglic, si sono dati appuntamento in Francia. Giro che strizza l’occhio a chi va forte in salita: ecco le dieci (e più) facce che possono conquistarlo.
Richard Carapaz. Vince perché è la corsa a tappe che ama di più, perché non poteva sperare in un percorso migliore, perché la Ineos si è privata di un velocista come Viviani per mettergli l’intera squadra a disposizione. Non vince perché presentarsi da favorito potrebbe rivelarsi un peso difficile da sostenere.
Simon Yates. Vince perché ha concentrato tutta la sua preparazione su questa corsa, perché la distanza ridotta delle cronometro gli sorride, perché aver già corso da primattore il Giro gli ha insegnato molte cose. Non vince perché ha sempre un giorno buio nel quale riesce a perdere tutto.
Tom Dumoulin. Vince perché come Carapaz e Nibali sa come entrare nell’albo d’oro, perché pochi chilometri a cronometro gli bastano per lasciare il segno, perché ha accanto un compagno come Foss per difendersi bene in montagna. Non vince perché dopo lo stop deve ritrovare certezze nelle corse a tappe.
Joao Almeida. Vince perché ha un feeling speciale con la corsa rosa, perché va forte su tutti i terreni, perché finalmente può presentarsi con la squadra al servizio e non al servizio della squadra. Non vince perché a quasi 24 anni non è più una sorpresa e non gli verrà concesso troppo spazio.
Vincenzo Nibali. Vince perché nei grandi giri lo sa fare meglio di tutti, perché la corsa rosa la conosce come le sue tasche, perché poter far corsa libera accanto a un leader come Miguel Angel Lopez potrebbe risultare un’arma decisiva. Non vince perché il meglio è passato e il suo è già nella storia.
Alejandro Valverde. Vince perché a 42 anni non si presenta solo per fare passerella, perché l’unica volta che ha corso il Giro nel 2016 l’ha chiuso sul podio, perché aiutare capitan Ivan Sosa può tenerlo nei quartieri alti. Non vince perché il passo dei più giovani può reggerlo in una classica e non in un grande giro.
Pello Bilbao. Vince perché è pronto per prendersi una corsa a tappe, perché senza puntare alla classifica ha già chiuso due volte nei primi sei, perché può contare sulla forza e l’esperienza di uno scalatore come Landa. Non vince perché strada facendo i giochi di squadra potrebbero proprio favorire Landa.
Romain Bardet. Vince perché ha ritrovato se stesso, perché è di quelli che corrono sempre nei primi dieci, perché tanta salita e poca cronometro sono il vestito più adatto a lui. Non vince perché è di quelli che una giornata storta la incrociano sempre e se capita in montagna sono dolori.
Lorenzo Fortunato. Vince perché sta benone, perché il trionfo di un anno fa sullo Zoncolan ha moltiplicato la sua fiducia in se stesso, perché si presenta per far classifica e non solo per restare con i migliori. Non vince perché, come per Ciccone, un conto è una giornata vincente, un altro vincere il Giro.
Attila Valter. Vince perché è l’anno dell’Ungheria in tutti i sensi, perché aver indossato la maglia rosa gli ha dato una consapevolezza diversa, perché è di quelli che comincerà a far corsa di testa fin da subito. Non vince perché come Hindley e Kelderman è di quelli bravi a rivelarsi, un po’ meno a confermarsi.