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Il primo Dylan Van Baarle della storia si chiamava Joseph Fisher, era tedesco e non olandese, anche lui riuscì a entrare nel velodromo André Pétrieux da solo, accolto non solo da migliaia di spettatori ma anche dalle decine di musicisti di una banda al suono della Marsigliese, compì non un giro e mezzo ma sei, quindi tagliò il traguardo, infine fu premiato non con una pietra di porfido ma con una coppa di champagne. Smesso di gareggiare, avrebbe fatto il tassista.
Parigi-Roubaix, la classica del pavé: “l’ultima follia del ciclismo moderno”, “la regina delle corse d’un giorno”, “monumento alla fatica ed al sacrificio”. Parigi-Roubaix, uno scrigno di avventure: “personaggi tragici”, “figure ammantate di mistero e di leggenda”, “una favola ad occhi aperti”. Parigi-Roubaix, un ballo (con la bici) in maschera (di fango): “memoria”, “fantasie”, “suggestioni”, “infinito romanzo”.
Beppe Conti ha scritto “Parigi-Roubaix” (Graphot, 190 pagine, 18 euro, con prefazione di Francesco Moser), storie di pavé, polvere e fango, dall’Ottocento a Colbrelli. “Tutto ebbe inizio in un domenica di Pasqua a fine Ottocento. Tra le ire del vescovo di Parigi, prima illuso e poi beffato. La città stava vivendo gli anni elettrizzanti della Belle Epoque, era stata inaugurata la Torre Eiffel, c’era stato il primo spettacolo cinematografico pubblico dei fratelli Lumière. I gran boulevard voluti dal barone Haussmann erano illuminati dalla luce elettrica, i parigini affollavano sognanti la Galerie Lafayette. A Montmartre stavano costruendo la Basilica del Sacro Cuore”. La prima edizione nel 1896: “Partenza alle 5,30, allenatori in bici per i protagonisti, secondo le regole dell’epoca, rocambolesche avventure per tutti su quei sentieri, fra cavalli imbizzarriti che ostacolavano il passaggio dei corridori, mandrie di mucche a bloccar la strada”.
Una storia con tanti italiani. Come Maurice Garin, primo nel 1897: “Piccolo e grintoso, 1,62 metri per 63 kg, scende di bici, stringe la mano al rivale olandese e lo conforta dicendogli che il più forte era stato lui ed avrebbe meritato la vittoria. ‘Però non illuderti, l’anno prossimo vincerò per distacco’. Sarà di parola”. Come Serse Coppi, primo nel 1949: “’A casa non ci crederanno mai! – sussurrò radioso Serse – Come farò a spiegare che ho vinto io e non Fausto?’”. Come Toni Bevilacqua, primo nel 1951: “L’unico rischio a ridosso del velodromo l’aveva corso quando un’oca sul pavé gli aveva attraversato la strada”, “faceva un gran freddo e lui ha preferito indossare la casacca del suo gruppo sportivo, la Benotto, marca di biciclette. Più pesante” della maglia tricolore di campione italiano.
Una storia con tanti protagonisti. Come Charles Crupelandt, francese di Roubaix, l’unico “enfant du pays” primo nel 1912 e 1914: “venne spedito al fronte fra i soldati motociclisti. Gravemente ferito, Crupelandt si meritò la Croce di Guerra per i gesti eroici al fronte. Lo assegnarono alla supervisione delle fabbriche Renault a Parigi. Purtroppo però si fece coinvolgere in un traffico di batterie assieme ad alcuni commilitoni, operai che già avevano conosciuto il carcere. Lo accusarono del furto di materiali bellici. Addio sogni. Scontò due anni di prigione”. Come Lucien Storme, belga, primo nel 1938: “a 22 anni non ancora compiuti”, “vinse in volata con estrema facilità”, “poi venne la guerra”, “fu fatto prigioniero dai tedeschi e internato nel campo di concentramento di Siegburg”, “il suo fisico straordinario resse però le fatiche e la fame”, “ma il 10 aprile ’45, quando arrivarono gli americani a porre fine alla assurda barbarie, Lucien venne ucciso incidentalmente nel corso d’una sparatoria”.
Beppe Conti, prima alla “Gazzetta dello Sport” e a “Tuttosport”, adesso alla Rai e con i libri, narra il ciclismo fra imprese ed episodi, miracoli e incidenti, curiosità e aneddoti. “Trionfi e drammi, la Roubaix non perdona”.
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