Non che avessimo bisogno dell'Amstel 2022, di segnali ne avevamo già ricevuti a carrettate, ma ormai è proprio il caso di riconoscere ufficialmente e solennemente il sorpasso. Non casuale, non estemporaneo: diciamo in tutto e per tutto stabile e strutturale. Il ciclismo italiano è femmina. Il che, detto così, lo farebbe passare per transgender, ma non c'è niente di più vero e genuino.
Da Alfonsina Strada, che non a caso conosciamo col cognome del marito perchè l'epoca era quella (lei nata Morini), da quella pioniera eccentrica e stravagante che una certa Italia ancora considerava mezza matta, molta strada senza giochi di parole abbiamo fatto. Ops, sorry: hanno fatto. Diamo alle dame quello che è tutto loro, diciamo che di strada ne hanno fatta loro, neanche tanto grazie a noi uomini che magari le abbiamo aiutate e sostenute, ma piuttosto nonostante noi uomini che in generale le abbiamo a dir poco snobbate.
Quello che ormai vediamo domenica dopo domenica è un fenomeno progressivo e inarrestabile: la bicicletta si è fatta sempre più donna e sempre più forte, fino a scavalcare in qualità e quantità di risultati il nostro mondo uomo. Da riserva indiana, da fenomeno marginale e vagamente pittoresco, ecco il ciclismo femminile diventare l'evangelica pietra d'angolo che tiene in piedi tutto.
Se siano effettivamente così forti loro, o invece così deboli i maschi, ciascuno può spiegarselo a piacimento. Resta incontestabile che le nostre ragazze sono oggettivamente forti, come dimostra la loro scalata nei confronti delle dirette avversarie di sesso, già da un po' molto forti.
Naturalmente non sarò io il primo a fare l'ipocrita: non ho alcun problema a dire pubblicamente che continua ad entusiasmarmi di più il ciclismo maschile, non tanto per una questione di bieco sessismo, ma proprio per una semplice questione di gusto personale (evito di addentrami nelle spiegazioni, perchè non possono interessare a nessuno: aggiungo solo che al femminile adoro il nuoto e la pallavolo).
Detto questo, brancandomi la mia dose di simpatici graffi femminili, sono qui a riconoscere che oggi come oggi l'Italia è fatalmente aggrappata alle sue donne. Se ancora abbiamo una visibilità e un'autorevolezza – dico a livello agonistico – è soltanto grazie a loro. E' un piacere riconoscerlo, oltre che un dovere tecnico. Spero solo che i complimenti vengano presi per quello che sono, perchè ormai qui noi uomini farabutti non ci possiamo neppure più concedere una galanteria che subito finiamo lapidati a suon di insulti. Non c'è niente di affettato, niente di cerimonioso, niente di galante in questo riconoscimento: è la pura e semplice verità. Non è il solito paternalismo maschilista che ragala un pat-pat con inguaribile tono di superiorità, non è la solita concessione dall'alto che fa tanto poverine: io, se fossi una donna, di questo ciarpame peloso – questo sì schifosamente maschilista - farei volentieri a meno. Tutto il contrario. E' ammirazione pura e sincera. Persino invidiosa. Quanto vorrei che i pantaloni del ciclismo tornassimo a portarli un po' anche noi uomini. Al momento, zitti e muti: tocca aspettare il prossimo giro della storia. E non cambierà tanto in fretta. Nell'attesa, imparare.