Freddo e un pizzico di neve alla vigilia, tanto per ricordare che il giro delle Fiandre è il primo grande appuntamento al Nord. Classica con la maiuscola, tra le poche che valgono una carriera, dopo due anni la corsa sulle pietre e i muri fiamminghi riapre al grande pubblico (un milione i belgi attesi sulle strade) senza l’ospite più atteso: manca infatti l’idolo di casa, il favoritissimo Wout Van Aert, fermato dal covid.
Così come non splende l’arcobaleno di Alaphilippe, una delle tante vittime illustri dei malanni di stagione. Non mancherà invece lo spettacolo, come suggerisce uno spartito che, pur modificandosi negli anni, non perde fascino e tantomeno valore. Si parte da Anversa, si arriva a Oudenaarde dopo 273 chilometri, attraversando diciotto tratti in pavé e affrontando altrettanti ‘muri’, tutti concentrati da metà gara in poi: servono forza, resistenza, oltre all’abilità di non farsi sorprendere troppo indietro sugli strappi, restando imbottigliati. Ecco le dieci facce che possono puntare a un posto nell’albo d’oro.
Mathieu Van der Poel. Vince perché in tre edizioni disputate ha raccolto un primo, un secondo e un quarto posto, perché da quando è riapparso sulla scena dopo sei mesi di guai ha corso sempre da protagonista, perché un inverno senza cross gli ha dato più energie. Non vince perché il lungo stop prima o poi il conto lo presenta.
Tadej Pogacar. Vince perché è la cosa che sa fare meglio, perché quando debutta in una corsa gli capita spesso di finirla in cima al podio, perché sui percorsi duri è bravo a tirar fuori il meglio di sé. Non vince perché su tracciati come quello del Nord un pizzico di esperienza serve sempre.
Kasper Asgreen. Vince perché questa classica gli sta come un vestito di misura, perché l’ha centrata un anno fa al terzo tentativo dopo un secondo e un tredicesimo posto, perché senza Alaphilippe ha un’intera squadra a disposizione. Non vince perché in grado di attaccare da lontano come lui ce ne sono parecchi.
Mads Pedersen. Vince perché c’è già andato vicino tre anni fa, perché le corse lunghe e fredde sono quelle che gli piacciono di più, perché fare sesto in una corsa poco amata come la Sanremo la dice lunga sulle sue qualità. Non vince perché con Stuyven in squadra rischia di doversi sacrificare.
Christophe Laporte. Vince perché è da inizio stagione che sta andando fortissimo, perché l’assenza di Van Aert gli offre grande libertà d’azione, perché sui muri fiamminghi ha dimostrato di essere a suo agio. Non vince perché non sempre chi è bravissimo ad aiutare lo è altrettanto a recitare da primattore.
Tom Pidcock. Vince perché si è ripreso alla grande dai guai allo stomaco, perché sulle strade del Nord ha già dimostrato di trovarsi a meraviglia, perché anche lui appartiene alla categoria di chi non soffre le prime volte. Non vince perché su distanze così lunghe finisce per sentire il peso della fatica.
Greg Van Avermaet. Vince perché è la corsa che più di tutte gli manca, perché in quattordici partecipazioni ha chiuso nove volte nei primi dieci, perché a 36 anni di occasioni per conquistare una classica così gliene restano poche. Non vince perché tre stagioni di digiuno fanno perdere l’abitudine al successo.
Alberto Bettiol. Vince perché è l’ultimo italiano a esserci riuscito tre anni fa, perché rispetto a Trentin non ha in squadra un leader per il quale sacrificarsi, perché su queste strade trova più ispirazione che su altre. Non vince perché la ripresa dai guai fisici, come per Moscon, richiede più tempo di quello trascorso.
Matej Mohoric. Vince perché è in un momento di splendida forma, perché la vittoria alla Sanremo gli ha dato maggior consapevolezza di sé, perché muri e pavé non gli fanno paura. Non vince perché è difficile che le sorprese riescano una seconda volta.
Stefan Kung. Vince perché ha forza e qualità per reggere sui percorsi duri, perché sta attraversando un ottimo periodo, perché di quelli che possono attaccare da lontano è tra i più pericolosi. Non vince perché nelle classiche non ha ancora fatto quel salto di qualità che serve per ritagliarsi un posto sul podio.