Attenzione, questa è una esercitazione banale, non si deve, non si dovrebbe, non dovete prenderla sul serio. Chi scrive non riesce, scrivendo, a non ricordare nel pesante senso scolastico di rammentare (cioè cercare di imporre il ricordo), e a non fare paragoni, un suo viziaccio di giornalista antiquo usato come regola per la sopravvivenza. Voi che leggete tarate tutto, tenendo fra l’altro presente l’età dello scrivente (86 e rotti) e le immani novità, anche nel campo dei media, legate a soldi soldi soldi e poi anche soldi, grazie a tecnologia spinta, sponsorizzazioni di tipo nuovissimo, continue trovate sensazionali di popolarizzazione planetaria e chissà se non di più, cellulari socializzatissimi e tante altre strumentazioni imperanti in un mondo comandato dal Diavolo, così diabolicamente bravo che si è fatto passare per Dio. Dio del progresso.
Dunque: sono sbalordito dall’eco totale, assoluta, cannibalesca che ha avuto la vicenda di un tennista serbo che ha tentato, riuscendovi eccome, di fregare Australia e mondo ed è diventato eroe speciale, dallo stravolgimento costante di un mondo, quello dello sport, che credevo fortemente, definitivamente ancorato nella storia con i suoi principali principi e che invece vaga come un iceberg in scientifica voluta deriva a caccia di poveri Titanic da affondare. Sono sbalordito di come persino il calcio, il santo calcio, si fa demoniaco di trovate, trucchi, stravolgimenti, iniziative di gente nuova che comanda tutto. Per difesa (legittima? boh) uso qui il mio ciclismo in salsina amarcord e gioco al gioco della nostalgia, delle memorie, del “come eravamo” quando questo sport dominava tanta Europa e sapeva sempre di pane fresco. Di come eravamo fessi e felici nel nostro palpitare per quelle che adesso, di fronte ai mostruosi accadimenti quotidiani sul piano mediatico, appaiono cosucce, quisquiglie, bazzecole, pinzillacchere. Non serve a nulla, lo so, ma aiuta a tirare avanti. La nostalgia magari non sa di niente, ma pensiamo che non puzzi.
Mi credete, ci credete se vi dico che neanche un tre quarti di secolo orsono discutemmo a lungo sui giornali se era cosa buona e giusta che sulle maglie dei professionisti apparisse una qualche scritta pubblicitaria (la Nivea, una crema per la squadra Fuchs per cui correva Fiorenzo Magni)? Ci fu chi ne scrisse come di una svolta quasi blasfema, tipo “signora mia dove andiamo a finire?”, ma intanto imperava il “dura minga”.
Mi credete, ci credete se vi dico che ai tempi del primo teletrionfante Processo alla Tappa, trasmissione in cui Sergio Zavoli spesso mi chiamava a fare la sua spalla, mi dissero seriamente che se al Processo citavo la birra un ente pubblicitario avveniristico, ricco e spregiudicato mi passava sottobanco ben lire 50.000? Però non valeva che io dicessi “a tutta birra”, troppo facile e furbo, dovevo specificare, tipo: “trincò una buona birra e andò in fuga”. La proposta era mediata da un collega scrivente amico dell’azzardo, rifiutai ma per paura relativa, non per moralità assoluta.
Mi credete, ci credete se vi dico che a Sanremo, dove impazzava già il grosso Festival della canzone ma dove con Gianni Minà andavo per scrivere su Tuttosport pezzi sui ciclisti in allenamento sulle strade liguri e pezzulli su eventuali loro minicontatti con il mondo dei canterini, proprio Minà (a cui il nostro sport tutto comunque non dovrebbe finire mai di dire grazie) mi propose di sondare l’eventualità che un nostro ciclista, Imerio Massignan esimio scalatore di carriera breve ma intensa, accettasse di dare il suo nome per la pubblicità di un calzino per uomo “firmato” anche da una cantante che pure già impazzava all’Ariston? Come se adesso si sperasse che Colbrelli, e diciamo di un peso massimo, accettasse di firmare un prodotto con i Maneskin… (Massignan non ne ha mai saputo niente, comunque).
Mi credete, ci credete se vi dico che al Giro 1965 un certo Felice Gimondi, neopro che l’anno prima aveva vinto il Tour dell’Avenir, disse in diretta la parola “casino” intendendo bagarre e fu sospeso dal Processo per un bel po’?
E tutto, ma proprio tutto nello sport era così. E allora passo e chiudo, ma con un excursus su una mia esperienza personale: mi credete, ci credete se vi dico che sono arrivato alla direzione di un quotidiano sportivo senza mai avere scritto la cronaca e il commento di una partita di calcio? Qui per la verità sono stato superatissimo ma in maniera ultrarivoluzionaria: adesso si può arrivare alla direzione di un quotidiano sportivo senza prima avere frequentato a fondo lo sport, e c’è chi pensa magari giustamente che non sia un male, se in cambio si palleggiano altre virtù utili, se non necessarie, nel nuovo mondo del diabolico technoDio.
da tuttoBICI di Febbraio