Quando un tappone, anzi “Il Tappone”, unico in un Giro già light di suo, diventa dalla sera alla mattina una tappetta, non è comunque un bel giorno.
Certo anche questo cortometraggio basta a confermare come in corsa ci sia un asso solo, talmente padrone da potersi permettere nel finale di togliere la mantellina per la foto ricordo in maglia rosa, ma la questione non si sposta di un millimetro. Tappone seviziato era in partenza e tappone seviziato resta. Tutta un'altra cosa rispetto al lento supplizio che i passi eliminati avrebbero comunque inflitto. Domanda rimpallata a tutti i livelli fino alla noia: giusto o sbagliato intervenire con le mutilazioni?
Ragionando a freddo, restano sacre e rispettabili le esigenze di sicurezza dei corridori, così come restano a dir poco comprensibili i sacramentoni tirati giù dai tifosi rimasti senza mattanza, in parecchi addirittura sulle montagne abolite.
Tutto è opinabile e discutibile, tutti hanno ragione e nessuno ha torto, ma il risultato certo è uno solo e su questo non c'è margine: i ciclisti, i nostri amati ciclisti, non possiamo più chiamarli eroi. Loro stessi non possono più chiamarsi eroi.
Lo so, viviamo le epoche moderne, non sono più i tempi di follie tipo Gavia. Prendiamone atto e facciamocene una ragione. Il nuovo mondo è questo e teniamoci il nuovo mondo. Però patti chiari e amicizia lunga: basta con l'epica dei ciclisti superuomini, basta con gli occhi a palla davanti a certe prove, basta con il complesso di superiorità rispetto a tutti gli altri atleti.
A forza di limare, tagliare, abolire, attenuare, stiamo correndo dritti verso la banale normalità. Con un effetto evidentissimo: loro, gli eroi, non fanno più niente di eroico, fanno esattamente le cose che fanno ogni domenica, ovunque, gratis, tutti gli anonimi cicloamatori, persino tutti i laconici ciclopancioni (posso testimoniarlo persino io: in 40 anni di bicicletta ho beccato tante gelate, tante grandinate, tanto caldone da poter legittimamente fare un po' il martire).
Per quanto ci sforziamo di caricare con l'enfasi i 150 chilometri da Sacile e Cortina, resta la sostanza innegabile di una tappa impersonale. La qualunque. Se poi viene buona per dire che il più forte è emerso comunque, allora possiamo anche fermarci qui e chiudere il Giro con una settimana di anticipo: contando solo il risultato, tagliando tutto il superfluo, non serve altro. Ma così ragionando potevamo già fermarci a Campo Felice.
La verità è che bisogna chiarire quanto ancora interessi il ciclismo in sé e per sé. Come spettacolo, non solo come gara. Se decidiamo che ormai ci interessa soltanto avere un vincitore e una classifica, allora avanti con questa corsa a tagliare tutto, montagne gelate, discese pericolose, chilometraggi lunghi, alte temperature.
Non mi stancherò mai di dirlo: il vero capolinea, in fondo a questa corsa, è già pronto. Possiamo anche vederlo con i nostri occhi, basta digitare zwift.com, quello è il ciclismo senza i pericoli del freddo e del caldo: tutti in casa, seduti su una bici ferma, e davanti lo schermo che ci proietta il Fedaia e il Pordoi, poi alla fine scarichiamo i dati per vedere chi ha fatto meglio. Sicurezza massima, rischio abolito (magari occhio all'infarto e all'ernia inguinale). E' bellissimo, nessuno si lamenta, corridori mai così felici. Peccato soltanto non poterli più chiamare eroi.