A come autisti. Nel senso di conducenti di ammiraglie. Sarebbe meglio dire piloti, vista la velocità a cui viaggiano e la propensione agli incidenti. Mestiere complicato, il loro: non bisogna solo guidare l’auto, ma anche parlare con i corridori, passare borracce, ricevere e consegnare indumenti, raccogliere la spazzatura, firmare documenti e portare fuori il cane. Per questo le loro auto si chiamano ammiraglie: con tutto quel che c’è da fare, si rischia il mal di mare. Vengono tutte numerate, dall’1 al 23, in base alla classifica che occupano: rispetto alla F1 è un’ingiustizia, qui la griglia la fissano i tempi dei ciclisti e non di chi guida. Anche la loro è una corsa, in perfetto stile gran premio: ci sono inseguimenti, sorpassi, a volte cambi di ruota e pit stop, riconoscibili da almeno una portiera spalancata e un occupante della vettura lì fuori in piedi che dà le spalle alla strada. Non mancano nemmeno gli incidenti, come a Cattolica, dove in un rallentamento, l’auto della Dsm ha centrato quella della Qhubeka, facendole esplodere gli air bags: vettura distrutta, occupanti illesi, ma anche stanchi in era covid di esser continuamente tamponati. Ma peggio ha fatto chi guidava la vettura della Bike Exchange, che ad Ascoli, chiamato dalla giuria per ritirare la giacca antivento di un suo corridore, non si è accorto di Serry e l’ha investito: l’autista è statp immediatamente espulso dalla corsa, tipico caso di rosso diretto per fallo da dietro.
T come traduttrice. Nel senso di interprete, persona che traduce oralmente da un’altra lingua. Da non confondere con l’interprete di uno spettacolo, anche se la diretta Rai a volte sembra una commedia. Grazie a questa figura, la tv di Stato da anni ha lanciato la doppia traduzione simultanea: il corridore viene tradotto sia da chi lo intervista, sia dall’interprete, posizionata altrove come nei convegni internazionali sul riarmo nucleare. Si riconosce dal timbro a metà fra il navigatore dell’auto e Alexa, il dispositivo Amazon per ascoltare musica, accendere luci e all’occorrenza insultare i vicini. Pure lei si accende da sola, appena l’intervistato apre bocca: funziona anche in caso di sbadiglio ed esitazione. Pare che sia parente di un famoso calciatore sudamericano che di recente ha sostenuto un esame per ottenere la cittadinanza italiana: frasi tipo ‘c’è stato un attacco mantenuto la posizione’ o come ‘mi sono portato in una buona condizione e vedere se vinciamo due tappe’ ricordano molto ‘bimbo porta cocomero’ e ‘una famiglia che va a fare cibo’. E’ diventata anche protagonista della battaglia che si è scatenata in Rai per la pronuncia corretta del nome Attila, nonostante da diciassette secoli si legga come si scrive: fra chi lo chiama Attìla e chi Otilla, è spuntata lei con Ottila, la classica libera interpretazione. Fosse come dice lei, bisognerebbe rivedere anni di storia del cinema (chi lo spiega ad Abatantuono di aver parodiato Ottila?) e di musica (l’avessero saputo, Verdi e Mina avrebbero cantato un altro capo barbaro), ma soprattutto di letteratura: Dante all’Inferno non manderebbe Ottila, ma chi lo chiama così.
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