Nella galleria dei ciclisti extraregionali che negli anni ‘60 hanno reso grande la squadra del Cavallino Rosso non può mancare Teodoro Cislaghi, per gli amici semplicemente “Doro”, classe 1943, milanese di Abbiategrasso che ha difeso i colori del team astigiano nel 1965: l’unico anno in cui la maglia dei “cavallini” non era biancorossa, bensì gialla.
Ci racconti gli inizi della sua carriera.
«Ho cominciato a 16 anni con il Velo Sport Abbiategrasso. Andavo benino, soprattutto in salita, ma intanto facevo il panettiere e non sempre potevo andare a correre. Comunque tra gli Allievi ho vinto due corse, entrambe per distacco».
E poi?
«Poi avrei dovuto passare dilettante, ma mio padre non voleva che perdessi altro tempo con le corse e allora sono ho dovuto smettere. A quei tempi ai genitori bisognava ubbidire».
Però nel ’65 lei ha gareggiato per il Cavallino Rosso…
«E’ stato un colpo di fortuna, perché ero amico di Emilio Garanzini, che aveva due anni meno di me ma era già un corridore quotato perché da Allievo vinceva spesso. Garanzini era stato richiesto dal Cavallino Rosso, ma i suoi dirigenti non volevano lasciarlo andare fuori regione da solo e così hanno chiesto a me se me la sentivo di andare con lui, anche se non correvo più da tre anni. Ormai avevo raggiunto la maggiore età, potevo decidere da solo della mia vita e così accettai».
Come era composta la squadra?
«Eravamo solo in quattro: oltre a me e a Garanzini c’erano due trentini: Gianni Carpentari, che andava molto forte in salita (vinse in carriera cinque edizioni della Trento-Bondone e tre volte la Bassano-Monte Grappa, ndr) e Nilo Piccoli, che poi sarebbe diventato papà del noto professionista Mariano. Il direttore sportivo era Gino Vairo, che viveva a Pinerolo ma spesso ci portava in ritiro a casa dei suoi genitori a Montemagno».
Come fu quella sua lontana esperienza piemontese?
«All’inizio è stata dura perché non ero più abituato a pedalare in mezzo al gruppo e soprattutto in discesa avevo un po’ di paura. Ma mi sono adeguato in fretta e nel corso della stagione ho ottenuto due belle vittorie per distacco».
Dove?
«A giugno ho vinto ad Aosta dopo aver staccato tutti sulla Tete d’Arpy e a settembre ho fatto il bis a Montemagno in quella che consideravamo un po’ come la corsa di casa, perché era organizzata proprio dal Cavallino Rosso e si disputava sulle strade che percorrevamo abitualmente in allenamento. Ricordo che gli amici di Montemagno mi portarono addirittura in trionfo e che Garanzini completò il successo della squadra arrivando secondo».
Altri risultati importanti in quella stagione?
«Sono arrivato secondo e terzo in due tappe del Giro di Jugoslavia e secondo anche nella classifica finale della Nizza-Torino. Eravamo a pari tempo con Cattelan e vinceva la corsa chi sarebbe arrivato davanti all’altro al Motovelodromo. Ma entrando in pista sono stato chiuso dai compagni di squadra di Cattelan e la scorrettezza è stata vista da tutti. Bastava fare reclamo alla Giuria e la vittoria sarebbe stata assegnata a me. Invece la mia squadra non lo fece, io mi arrabbiai e l’anno dopo passai alla Centotorri, proprio la squadra di Cattelan».
E come andò?
«Mica tanto bene, perché dovevo fare il gregario a Vaschetto, ma soprattutto perchè in quegli anni non c’era ancora l’antidoping e in gruppo giravano troppe pastiglie strane. Ho preferito dire basta con la bici e tornare a casa a fare il panettiere. Una decisione di cui non mi sono mai pentito poiché, sinceramente, è stata la mia grande fortuna».
Da La Stampa – edizione di Asti
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