José ha 38 anni, Jeison 20. José è professionista – fra contratti firmati e rescissi, accordi singoli e doppi, squadre solide e fatiscenti – dal 2003 e adesso gareggia per la Osorio, venezuelana, Jeison è ancora fra gli Under 23 e corre per la Fundacion De Ciclismo Benicadell, spagnola. José ha l’Italia dentro, nel cuore (tre vittorie di tappa e il terzo posto nella generale nel 2005), Jeison ha l’Italia addosso, sulla pelle (la maglia è confezionata dalla Alé). José è il Condor, Jeison il Condorito. I due Rujano: José il padre, Jeison il figlio.
José e Jeison Rujano al via della Vuelta al Tachira, la più importante corsa a tappe in Venezuela. Non è la prima volta che corrono insieme e contro. Lo scorso novembre Jeison precedette José nella prova a cronometro dei campionati nazionali: secondo il figlio, quarto il padre. Ma la crono non è mai stata il forte di José, la sua specialità è sempre stata la salita, tant’è che un mese dopo, lo scorso dicembre, il padre ha preceduto il figlio vincendo la sfida a La Azulita de Merida su quello che viene descritto come il Balcon de los Andes.
José fu una folgorazione. Era il Giro del 2005 e sulle rampe del Colle delle Finestre, lui, peso minimosca, volava. Da piccolo (e piccolo è sempre rimasto, almeno nella statura: 1,62) vantava il primato locale nella raccolta delle pianticine di caffè: era costretto a guardare in basso. Invece quel giorno si ispirò guardando in alto: le Alpi, che brillavano, il sole, che accecava, e la classifica, che scalava. Sul Sestriere mollò anche Gibo Simoni e conquistò non solo un traguardo nella storia, ma anche un nome e un cognome fino ad allora al mondo sconosciuti, o dal mondo ignorati. Distratto dalle donne, frenato dai soldi, inebriato dal volo, José ha volato meno di quanto avrebbe potuto. Ma la sua natura di condor si è trasmessa a Jeison. La bicicletta rivela il carattere, la personalità, anche la parentela.
Il ciclismo è sport di dinastie. Dai Van der Poel (con tanto di nonno Poulidor) ai Moser (compreso lo stesso Simoni), la passione è un’eredità genetica che unisce, contagia, riproduce, moltiplica, collega e mai divide. Poker, tris e coppie di fratelli, nonni e nipoti, zii e cugini, marito e moglie e poi uno o più figli, fino alla più comune alleanza tra padre (o madre)-allenatore e figlio (o figlia)-atleta. Con le dovute attenzioni psicologiche e pedagogiche. Ma un padre e un figlio (o una madre e una figlia), impegnati nello stesso pronti-via, è una circostanza ciclistica più unica che rara. Non in altri sport. A cominciare dal calcio: Rivaldo e Rivaldinho compagni nel Mogi Mirim, serie B brasiliana; in nazionale, contro l’Estonia, l’islandese Arnor Gudjohnsen uscì dal campo sostituito dal figlio Eidur; il record spetta ad Aleksei Borisovic, russo naturalizzato finlandese, che nell’HJK di Helsinki giocò prima con il primogenito Aleksei junior e poi, nel Fotbollsföreningen Jaro Jalkapalloseura, più semplicemente Jaro, con il secondogenito Roman. Padri e figli anche nell’automobilismo, con Mario e Michael Andretti. E soprattutto nel basket: aveva 40 anni Dino Meneghin quando incrociò sul parquet il figlio Andrea, che di anni ne aveva 16. Nella circostanza la Trieste del padre superò la Varese del figlio. Senza fare sconti.
Quando possibile, i padri, ai figli, danno la paghetta, ma poi gliela fanno pagare.
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