I colori e i profumi della Sicilia li ha sempre custoditi nel cuore, come un tesoro da proteggere. Damiano Caruso, corridore della Bahrain Victorious, ha dovuto lasciare la sua Sicilia, la sua Isola con quei contrasti che ancora oggi per lui sono il simbolo della sua terra. Se n’è andato per inseguire il sogno di diventare corridore, tanti sacrifici vissuti da adolescente, fino alla conquista del suo sogno: diventare un ciclista professionista. Poi il ritorno a casa, con l’orgoglio e la consapevolezza, di aver compiuto qualcosa di grande.
Una scelta, la sua, che vuol essere un esempio per i più giovani che nella loro terra devono trovare le risorse per diventare bravi e importanti.
Damiano nel 2020 è stato il miglior italiano sia al Tour de France che al Mondiale di Imola, dove è arrivato decimo. Magnifico alla corsa francese, quando in montagna dava tutto se stesso per Mikel Landa, il capitano con cui ha un rapporto speciale, fatto di fiducia reciproca. Caruso è il simbolo del ciclismo forte, di chi da ragazzino, su un treno o un aereo ha lasciato la propria casa per una corsa, per un posto in una squadra. Cresciuto in una seconda famiglia, ha studiato ed è diventato grande, ha fatto il suo dovere con sacrificio e passione e nella prossima stagione lo vedremo correre tanto in Italia, dalle Strade Bianche fino al Giro d’Italia.
Lei a differenza della maggior parte dei suoi colleghi del Sud Italia, appena ha potuto è tornato a casa. Come si vive nella sua Sicilia?
«Si vive benissimo, l’estate dura fino a novembre. Non sono partito per le vacanze, ma quando vivi in un posto come la Sicilia non hai bisogno di andare lontano per vedere luoghi meravigliosi. Quest’anno poi, abbiamo avuto giornate con temperatura miti e per tutto il mese novembre mi sono allenato con le maniche corte. Chi pratica ciclismo come me, qui trova sia le montagne che la pianura e le strade non sono trafficate. Per me è il luogo perfetto».
Lei per diventare un professionista ha dovuto lasciare la sua terra. Quanto è difficile per un giovane siciliano fare ciclismo oggi?
«Ancora oggi è difficile e, rispetto a quando avevo 14 anni io, credo sia cambiato ben poco. Manca una nuova cultura ciclistica, quella che c’è oggi è la stessa che è rimasta impantanata nei vecchi canoni. Manca la gente con la volontà di investire in questo sport e i giovani sono costretti ad andare al Nord. In più, la Sicilia è un’isola, parte già svantaggiata, non immaginate quanto possa costare ad una società organizzare una trasferta di giovani per andare a fare le gare. Purtroppo ancora oggi la Sicilia è lontana dal centro del ciclismo».
Come è stato per lei lasciare la sua casa e i suoi affetti per inseguire il sogno di diventare un ciclista professionista?
«A 16 anni finita la scuola trascorrevo tutte le estati fuori con la squadra e appena mi sono diplomato mi sono trasferito definitivamente. Nel mio cammino sono stato fortunato, ricordo quando sono andato alla Mobili Berti di Massa, dove ho trovato persone serie che hanno creduto in me e mi hanno dato la possibilità di studiare a casa e di pagarmi un biglietto aereo ogni settimana per andare a correre. Mi hanno anche fatto comprendere l’importanza di un’istruzione. Successivamente sono andato alla Mastromarco, dove sono cresciuto rapidamente e non mi hanno mai fatto mancare nulla. A Mastromarco ho trovato una seconda famiglia, sapevano che eravamo dei ragazzini di 20 anni lontano da casa e non siamo mai stati sfruttati e lasciati soli».
Lei invece che trasferirsi definitivamente ha deciso di rientrare in Sicilia. Non era più facile vivere al Centro-Nord?
«Forse, ma io avevo fatto una scommessa con me stesso. Volevo tornare a casa dai miei affetti, nella mia terra e dovevo dimostrare prima a me stesso e poi anche agli altri, che in Sicilia si può tornare e oggi posso dire di aver vinto la mia scommessa. Questa è una terra dove piangi quando te ne vai e piangi quando finalmente puoi tornare».
Torniamo al 2020, lei è stato uno dei migliori italiani: si sente soddisfatto?
«Obiettivamente direi che per me è stata una stagione positiva, probabilmente una delle migliori degli ultimi anni. Con un calendario così stretto non avevamo margine per sbagliare e fare sempre le cose nel modo giusto non è facile. Per fortuna o per bravura sono riuscito a farmi trovare pronto nei momenti in cui serviva e sono anche tornato a vincere. Senza dimenticare che ho corso un Tour ad altissimi livelli e ho disputato un Mondiale dignitoso».
Lei parla di Mondiale dignitoso, ma è stato il migliore degli italiani. Non pensa di essere stato bravo?
«In squadra avevamo ragazzi più vincenti di me, come Nibali, Ulissi e Bettiol, che hanno conquistato successi importanti e bisogna essere obiettivi. Il Mondiale è una corsa di un giorno e conta quello che hai nelle gambe e che puoi dare. Non ho rimpianti per quella giornata, sono arrivato al traguardo stremato, ho la certezza di aver dato tutto, ma anche la consapevolezza che avrei potuto giocarmela in modo differente. Ma non ho rimpianti, veramente».
Ha qualche rimpianto invece per la stagione?
«L’unico rimpianto che ho è di non aver potuto correre il Giro d’Italia, che quest’anno aveva delle tappe nella mia Sicilia. Mi sarebbe piaciuto far bene sulle mie strade».
Esiste un momento particolarmente bello per lei nel 2020?
«Non penso ad un singolo momento, ma ad un intero periodo che va letto nel suo insieme. Mi viene in mente il lockdown e alla forza che abbiamo messo in quel periodo per non arrenderci e a come abbiamo lavorato quando siamo tornati in strada. Senza dimenticare la gioia della prima corsa, quando siamo tornati a sperare nel futuro. Se devo pensare ai singoli momenti, mi viene in mente la vittoria in Spagna e il piazzamento nella top ten del Tour. Ma preferisco pensare all’intera stagione».
Quando è tornato a correre a cosa pensava?
«Pensavo di essere tornato a fare quello che mi piaceva e che tutto sommato, nonostante la situazione, mi stavo divertendo. A 33 anni è bello poter dire: mi sono divertito, ho fatto una bella stagione. Penso a come siamo ripartiti, alla dedizione che abbiamo messo ogni giorno e alla forza incredibile che siamo riusciti a tirar fuori. Man mano che i giorni passavano, ci rendevamo conto che stavamo dando il massimo e che quel massimo era utile a noi in gara e alla gente che ci seguiva da casa».
In una stagione così anomala i momenti difficili non sono mancati. Dove trovava la forza per andare avanti?
«La forza la trovi dentro di te, la bicicletta ti aiuta a distoglierti dai problemi quotidiani e ti dà la possibilità di trovare degli obiettivi, come ad esempio tornare a determinati standard di prestazione. Io spesso mi sono messo nei panni di chi era costretto a stare chiuso in casa tutto il giorno e guardare in televisione le notizie drammatiche. Pensavo alla gente che aveva perso il lavoro, oppure a chi per questa situazione aveva iniziato a soffrire di depressione. Analizzando tutto questo mi sentivo un uomo fortunato, tutto sommato libero, mentre c’erano persone che stavano soffrendo e questo mi dava una grande forza».
Si è considerato un uomo fortunato in questo anno?
«Sicuramente. Io avevo una bici che è stata una grande valvola di sfogo, ero a casa con la mia famiglia e stavamo tutti in salute. Quindi posso dire di essermi sentito veramente fortunato».
Lei parla di se stesso sempre senza troppi complimenti: non le piacerebbe ricoprire il ruolo di capitano?
«Non mi piace fare proclami, sarebbe bello fare il capitano, ma per farlo devi fare il grande risultato, non basta arrivare ottavi o sesti. Ad esempio nella mia posizione fare un sesto o un settimo posto, non cambia nulla anche a livello economico. Il discorso cambia quando sali sul podio o vinci e allora anche per l’immagine della squadra è un altro tipo di discorso. Ma se devo arrivare dentro i primi dieci, senza salire sul podio, allora è meglio mettersi al servizio di qualcuno in squadra più bravo e lavorare per raggiungere la vittoria con chi ha più qualità».
Per lei la bicicletta è sacrificio, oppure c’è qualcosa che nasce dalla bici e che l’arricchisce?
«La bicicletta ti dà solo se prima c’è stato sacrificio. Se non c’è sacrificio con la bici non ottieni nulla, a meno che non sei uno dal talento speciale, come poche volte capita, ma anche chi ha talento deve avere le gambe buone. Con la bici devi sempre mettere tanta dedizione, costanza e la capacità di saper soffrire e anche quando ti alleni tanto non basta, perché nello sport serve anche la fortuna».
Lei prima di Natale ha trascorso 10 giorni alle Canarie: com’è andata?
«Anche qui torniamo sullo spirito di sacrificio. Non sono andato con la squadra e avrei potuto rimanere a casa come hanno fatto tanti altri. Invece con Colbrelli, Landa e Frapporti ci siamo allenati insieme, perché volevamo fare un blocco di lavoro importante, utile per gettare le basi per la prossima stagione. Abbiamo creato la nostra piccola bolla, perché dobbiamo sempre mantenere alto il livello di sicurezza».
A lei le critiche non sono mai piaciute, perché?
«La gente spesso non capisce quanto lavoro ci sia per preparare una gara. Ci vedono quel giorno in corsa e se non otteniamo il risultato veniamo criticati e questo non è giusto. Non parlo di me stesso, perché tutto sommato io non ho ricevuto molte critiche, ma spesso si spara a zero o si danno sentenze su colleghi che ogni giorno fanno sacrifici e questo mi dispiace molto».
Il sacrificio viene sempre ripagato?
«Purtroppo spesso accade il contrario, ma ci sta anche questo. I fattori che ti portano a fare una corsa bene e a vincerla sono tantissimi. L’importante è continuare ad avere la voglia di fare bene e ad impegnarsi».
Quanto tempo dedica all’allenamento in questo periodo?
«Alle Canarie abbiamo fatto lavoro di carico, quindi ci siamo allenati 25-30 ore distribuendole su 6 o 7 sedute e i giorni di riposo li abbiamo messi nei giorni di viaggio e poi abbiamo fatto il recupero attivo, un’uscita leggera. In questo periodo dell’anno comunque lavoriamo di più sulla forza, con ripetute specifiche lavorando sulla forza pura del muscolo per sviluppare poi grandi wattaggi».
Quali saranno i suoi obiettivi?
«Vorrei confermare il livello che ho avuto lo scorso e anno e migliorarlo, anche se non è facile ripetersi. Quest’anno partirò più tranquillo, senza sovraccaricarmi, cercando un nuovo successo e poi concentrandomi di nuovo sulle corse a tappe. Partirò con la Valenciana, poi farò Strade Bianche, Tirreno-Adriatico, Romandia e Giro d’Italia».
Cosa preferisce tra Giro e Tour?
«Il Giro è la nostra corsa e per noi italiani ha un valore enorme, ma il Tour ha una visibilità che nessuna altra corsa ha».
Al Giro con quale ruolo?
«Come sempre sarò un ottimo gregario e mi impegnerò per portare il nostro capitano Mikel Landa fino al podio. Sarebbe bello poter contribuire ad una vittoria importante della squadra».
Cosa vorrebbe per il futuro?
«Vorrei avere la stessa forza che ho avuto nel 2020. Avere la possibilità di correre con quella stessa energia, che con il passare dei giorni aumentava, dandoci la capacità di correre anche nei momenti difficili».