Dopo 35 anni al seguito del grande ciclismo come inviato speciale, dal 2010 Beppe Conti è diventato popolare come opinionista Rai per gli avvenimenti clou della stagione internazionale della bici. E intanto ha scritto una trentina di libri, di argomento prevalentemente ciclistico. Ma forse non tutti sanno che, prima di diventare giornalista, da giovane Beppe aveva corso in bici con risultati tutt'altro che disprezzabili. E poichè le sue principali vittorie sono state ottenute con la casacca biancorossa del Castelnuovo Don Bosco, ecco che Conti, pur essendo torinese di Cambiano, merita di figurare nella galleria-amarcord del ciclismo astigiano.
Come ti sei avvicinato al mondo della bici?
«Grazie a mio papà Marino, che era era un grande appassionato. Avevo 9 anni, tifavo per Baldini che non vinceva più e soffrivo tantissimo. Ma la scintilla è scattata nel '61 quando il panettiere di Cambiano, patito di ciclismo, riuscì a organizzare una kermesse in paese con i reduci dal Giro d'Italia: Pambianco in maglia rosa, Balmamion, Defilippis, Messina e tutti gli altri. Per me, che avevo 10 anni, è stato un sogno».
Ricordi la prima vittoria?
«Perfettamente, anche perchè la considero una piccola impresa. Era il 4 settembre 1966, avevo 15 anni e quella domenica nessuno poteva portarmi a correre. Così da Cambiano andai a Ciriè, dove si svolgeva la corsa, in bici. Arrivammo tutti in gruppo e vinsi nettamente, a mani alte. Mi cambiai e poi, con la Coppa che avevo vinto in mano, ripresi la strada di casa. 150 chilometri in tutto. Una faticaccia, ma che soddisfazione!».
E poi?
«La mia stagione d'oro è stata il 1967, al secondo anno tra gli Esordienti nel Castelnuovo Don Bosco. Solo due vittorie, a Spinetta Marengo e a Trino, ma tantissimi piazzamenti, che mi hanno permesso di piazzarmi terzo nella classifica regionale degli Esordienti e di essere tra i cinque piemontesi selezionati per la prova tricolore di Polignano a Mare».
Delle tue dieci vittorie qual è stata la più importante?
«La Torino-Lignana del 1969, al secondo anno da Allievo con i colori della Barbero, quando ho battuto in volata il quotato Licciardello, che stava vincendo quasi tutte le domeniche. Io però l'affrontavo per la prima volta ed ero convinto di poterlo battere allo sprint».
Perchè allora hai smesso di correre a soli 19 anni?
«Dico sempre che per me era meglio e più facile scrivere che correre. In realtà avevo fatto presto a capire che non potevo spianare le montagne e che non era il caso di insistere. Del resto avevo già le idee chiare: il giornalismo era la mia passione anche quando correvo ancora».
Ci sono persone, nella tua parentesi agonistica astigiana, verso le quasi provi riconoscenza?
«Una persona speciale è stata Cesare Picollo, di Castelnuovo Don Bosco, che stravedeva per me come se fossi stato il figlio maschio che non aveva avuto. Poi i fratelli Bruno ed Emilio Barbero, i titolari dell'omonimo Gruppo sportivo, con un cenno speciale per Luciano Cerrato, che sento ancora adesso».
Aver corso in bici ti è servito per la tua professione?
«Il ciclismo pedalato per me è stato determinante. Mi ha dato grinta, carattere e temperamento e mi ha permesso di capire meglio questo sport al quale ho poi dedicato tutta la mia vita professionale, realizzando i miei sogni di ragazzo».
Ne avevi uno in particolare?
«Sì, volevo seguire un Giro d'Italia. Sono arrivato a 43 consecutivi, oltre a tutto il resto. E non è ancora finita...».
da La Stampa - edizione di Asti
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