
Da un punto di vista letterario valeva Coppi, da un punto di vista artistico superava Merckx, da un punto di vista popolare batteva Pantani. Se fosse appartenuto al ciclismo, ogni giorno per almeno un mese avremmo dovuto riscriverne la storia a puntate, intervistando recuperando filosofeggiando, recitando cantando intonando, lottando contro retorica e banalità, stilando classifiche in cui avrebbe guardato tutti dall’alto in basso. Lui era storia, mito e leggenda già subito, già allora, già ancora, già sempre, molto tempo prima di andarsene così poco eroicamente e poco spettacolarmente, ma modestamente e anonimamente in casa, dopo che sembrava averla scampata – un cuore spremuto e sfinito - per l’ennesima volta, l’altra sua irraggiungibile specialità.
Diego Armando Maradona. Amato, amatissimo. Una vita al limite, oltre il limite, senza limiti. Una sola vita, questa, e così tanto valeva aprire il gas, a manetta, a tutta, alla morte, una morte se non voluta e cercata, però considerata e pesata, se non prevista, però possibile e anche probabile. Una collaudata convivenza (connivenza?, commorienza?), quella fra vita e morte, perché gli è capitato di stare più di là che di qua. E quando tornava dalla morte alla vita, erano biglietti di andata e ritorno, non aveva cambiato modi, toni, livelli, ma era tale e quale prima.
Uno così, a casa o in ufficio, in famiglia o al lavoro, sarebbe stato un problema. Certo non il migliore esempio o modello. Ma in campo e in spogliatoio era varietà ed esibizione, teatro e circo, magia. Giochi di prestigio. Giochi di luce. Giochi di arte. Con i piedi architettava, pennellava, musicava.
E forse anche per il rispetto verso l’arte, dunque verso la bellezza, e dunque verso la felicità, si era portati al perdono, all’indulgenza, alla grazia. La legge non è uguale per tutti. Maradona aveva il condono garantito.
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