CHI L'HA DETTO?

TUTTOBICI | 17/11/2020 | 07:55
di Gian Paolo Ormezzano

Questo è un intervento strettamente personale di un giornalista che ha se­guito il suo primo Giro d’Italia nel 1959, gliene ha incollati professionalmente altri 27, ama il ci­clismo, e a suo tem­po passò per ere­tico fra i santoni del­la bicicletta. Questo giornalista ri­tiene che sia sbagliata la diagnosi scaturita dall’ultimo Giro d’Italia e riferentesi a un po’ tutto il ciclismo, già “colpito al Tour dalla vittoria di uno sloveno su un altro sloveno, due cioè di un Paese senza tradizioni. Era, quello del 1959, ancora  il ci­clismo dei giornalisti cantori, epigoni stretti di quelli del cosiddetto ciclismo eroico. Coppi era vi­vo, Bar­tali imperversava alla te­levisione, Za­voli inventava il Processo alla tap­pa. Il fattaccio dello sciopero recente da fighetti al Gi­ro è altra cosa, il nostro intervento vuole essere più vasto e pazienza se meno cattivante per attualità, più diluito nel tempo e nei fatti e nelle persone.


Passo alla prima persona che de­te­sto, mi sa di prosopopea e dogmatismo, ma devo usarla perché mi sen­to davvero abbastanza solo. Leg­go di nostalgia per il ciclismo di una vol­ta, quando i corridori si­curamente non scioperavano per accorciare il chilometraggio di una tappa nel giorno di pioggia. Leggo di delusione per l’avvento di corridorini e corridorucci che non avrebbero personalità, che vincono con comportamenti normali, regolari, logici e non epici, e non hanno molta voglia di sfidare gli elementi atmosferici. E mi vie­ne un sospetto: che tanto ciclismo epico di una volta contenesse una buona dose di bluff, dovuto al­la ne­cessità di enfatizzare il materiale umano scarso e disponibile. Che il ciclismo eroico fosse un “travestimento” per abbellire i po­veracci, che fra l’altro dovevano essere di umili origini (ideali in assoluto quelle contadine), di aspetto proletario, di modi plebei eccetera eccetera…


Si enfatizzavano allora i corridori scorfani: la pulce dei Pi­­renei, il “testa di vetro” del­la Bretagna, chez nous lo scopino di Monsummano, il pastorello di Pa­vullo. Fausto Coppi era brut­tino giù di sella, aveva un to­race da uc­cello, e per questo era scorfano divino. Il ciclista normale doveva essere piccolo o almeno non alto, sgraziato, poco muscolato, non atleta classico, diciamo ellenico, meglio asceta. Arrivò un certo Eddy Merckx, alto e forte di muscoli, e sentii Gian­ni Brera (che stimai anzi adorai in assoluto, non nel relativo di certe sue boutades provocatorie) sentenziare che mai avrebbe vinto una grande corsa a tappe perché fiammingo e mangiatore di polenta. E poi il bel­ga era troppo alto: come se non esistessero i rapporti per le salite e non fosse possibile trasferire si qualsiasi terreno la forza delle gam­be sui pedali… C’era tut­to un sport “altro” che nel do­poguerra si sforzava di celebrare atleti belli, forti, non più affamati e finalmente tutti sani, e però nel ciclismo si celebrava an­cora il fa­chi­rismo, l’ascesi, la po­ver­tà fisica “ambientata“ nell’umiltà mo­rale.

Io ero arrivato al giornalismo sportivo dal nuoto agonistico e amavo l’atletica, ogni tanto mi permettevo sì di scrivere che forse si sbagliava tut­to, penso che ero divertente, assurdo ma divertente, per questo venivo tollerato. Il ciclismo era lo sport glorioso del villaggio italio-franco-belga, con visitazioni saltuarie svizzere, olandesi e spagnole. Ba­sta­va ed avanzava per noi, per i lettori dì allora voglio dire. Inglesi e tedeschi corridori erano animali curiosi, il resto del mondo non esisteva. Adesso si registrano e in­tanto si pa­tiscono gli avventi nelle alte classifiche di corridori davvero di tutto il mondo, con grande abbondanza di australiani e di la­ti­noamericani, do­po l’ormai certificata esplosione de­gli statunitensi e dei canadesi, ci so­no giapponesi e cinesi, prossimi vincitori al Giro e al Tour. Gli africani hanno del problemucci che si chiamano fa­me, malattie, guerre e mi­grazioni, per ora. Ma tengono gam­be buo­ne e lo dimostrano nella do­mi­nazione delle corse a piedi su lunghe distanze. Le biciclette costano troppo per loro, ma se potessero usa­­re la forza delle loro gambe per pedalare su di esse…

Scrivevo che il ciclismo avrebbe po­tu­to essere stravolto, e nei valori massimi, se in bicicletta, e per le grandi corse “nostre”, fossero sa­li­ti i forti bipedi di Usa o Urss. Non passavo per pazzo solo perché pochi mi filavano, non facevo quasi rumore. Come quando ascrivevo il doping alla scienza, e esortavo a sfruttare certe scoperte anziché demonizzarle (poi arrivò Armstrong e un decennio e mezzo di suo uso di prodotti sleali, ma forse da usare per curare persone malate, deboli).

Adesso possiedo distacco anagrafico e non solo per meglio vedere dal di fuori cosa accade. Registro i sospiri per un certo ciclismo eroico che non c’è più, per lo Stelvio umiliato. Ma chi ha deciso che i vincitori attuali dello Stelvio non sono grandi atleti e quindi non hanno anche da essere ritenuti grandi ciclisti? Hanno dei pullman riscaldati che li attendono dopo la tappa, sai che colpa. Una vol­­ta si esaltavano le trasferte in ter­za classe e sui sedili di legno, sai che bello. Ma perché quelli dei corridori torturati in corsa e non solo dovrebbero essere ritenuti tempi migliori? Migliori per chi? Per chi leggeva di queste torture e si compiaceva del proprio vivere comodo o comunque meno disagiato? Per i giornalisti che in tanti descrivevano le sofferenze altrui con una esondazione sentimentale pari almeno alla siccità sintattica e grammaticale, e senza quasi mai vedere i corridori in azione? Tempi comodi per i fortunati, ecco, con proposta di attori vicini di ca­setta, passeggeri di strada nei nostri paesucoli, eroi e fachiri da spupazzare anziché da studiare casomai aiutare con qualcosa di più di un batter di mani…

Ricordo un manager amico mio che per i suoi corridori sce­glieva i migliori alberghi e veniva criticato perché, dicevano, li rammolliva. Agli arrivi azionava lo spray alla lavanda per profumarli al­meno un poco acciocché non fossero sempre chiamati puzza piedi, era tanto che non lo dicessero gay. Non era amato nell’ambiente, eppure lui amava e conosceva il ciclismo e pri­ma Coppi poi Merckx, Zilioli e poi  Balmamion si affidarono a lui. Se ne è andato troppo presto, cuore eccetera, alla fine di una tappa del Tour toccò a me annunciare a Eddy e a Italo, “figli” suoi, che era morto. C’è qualcuno che ricorda il suo nome?

da tuttoBICI di novembre

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COMMENTI
vincenzo giacotto
17 novembre 2020 09:24 agostino
oggi sarebbe un grande team manager

Bel pezzo
17 novembre 2020 14:12 sbunda
Bel pezzo. Ormezzano il più intellettuale di tutti mette in discussione tutto.

Condivido in parte
17 novembre 2020 14:37 59LUIGIB
Inizio dalla fine credo che il maneger citato sia Giacotto per quanto riguarda l'evoluzione, meno male che questi ragazzi fanno vita meno grama ma quello che è successo al giro con la tappa da Morbegno ad Asti resta inqualificabile per il fatto che c'era tempo e modo per contestare questa tappa con qualche settimana di anticipo (non 30 minuti prima del via) da parte dei rappresentanti dei corridori.

GPO
17 novembre 2020 20:26 canepari
sempre fuori dal coro e controccorrente. Deve sempre dire qualcosa di diverso e originale. Può scrivere e, scrivendo, incantarti su tutto e il contrario di tutto...
Che poi detesti la prima persona.....ebbè è tutto da vedere.

epopea del ciclismo
17 novembre 2020 21:26 italia
Il ciclismo negli anni 50’ e 60’ era lo sport seguito dal popolo umile, lavoratore ma soprattutto LIBERO che si identificava con il ciclista; il muratore faceva fatica e sudore, il ciclista lo stesso.
Mi ricordo che leggevo Bicisport e il direttore Sergio Neri in un articolo espresso il pensiero tipico di quell’epoca, con la celebre frase che diceva più o meno così:
”Ragazzo se quando ti svegli al mattino apri la finestra e vedi che il tempo è brutto, piove e deve affrontare una tappa di montagna e non te ne va, ragazzo ricorda: il ciclismo non è uno sport per te”
E’ vero a quei tempi c’era l’epopea dei ciclisti uomini abituati alla fatica e non era uno sport per tutti. E questa esaltazione segnò la rovina.
Purtroppo, per il ciclismo, questo dava un fortissimo fastidio ai notabili politici (con la puzza sotto al naso) che invece avevano deciso che lo sport del regime doveva essere un altro, in quanto preferivano una società basata sulla disonestà, sull’intrallazzo, ruffianeria, ingiustizia, incompetenza, abuso di potere in nettissima contrapposizione con gli ideali del ciclismo.
E cominciò una dura opera di abbattimento di questo sport (telecronache subdole , quando vinceva un ciclista una importante corsa la notizia veniva data nei telegiornali per ultima con la dicitura .. “e per finire” e con la faccia visivamente semidisgustata del giornalista), mi ricordo una corsa trasmessa con l’arrivo da metà gruppo in poi, il record dell’ora di Moser non trasmesso in diretta perché si cagavano sotto che poteva fare un’audience di un campionato mondiale di calcio, i vincitori di classiche italiane in Belgio invitati alla Domenica sportiva farli parlare delle loro imprese intorno a mezzanotte per 30 secondi, una campionessa mondiale di ciclismo che assunse agli onori una pagina del telegiornale non quando vinse il mondiale, ma bensì quando venne trovata positiva ad un controllo antidoping per una scemenza di un integratore e tantissimi altri casi).
Grazie per la possibilità di espressione.
Saluti

il ciclismo "di una volta"
18 novembre 2020 22:43 Fondriestbike
Ormezzano è sempre Ormezzano….
Comunque
-il punto di molti commentatori di oggi non è paragonare il ciclismo “di una volta” con quello attuale degli scioperanti al Giro. Il punto è che certe cose non sarebbero nemmeno pensabili al Tour, compreso il ritiro fuori dalle regole della Jumbo. Ha ragione Gianni Savio, che parla di oligarchia WT. Come già ho scritto, viene il sospetto che si voglia (inconsapevolmente?) delegittimare il Giro per ridimensionarlo (non volevano già farlo?);

-un altro punto di riflessione è quello della comprensione delle ragioni del “mito” del ciclismo “di una volta”. Per chi, come me, ha avuto la fortuna di seguirlo con l’accompagnamento delle parole di Bruno Raschi, Sergio Neri, Giampaolo Ormezzano, Gianni Mura, sente che non può essere stata semplice suggestione, come non può essere stata semplice casualità se quei giornalisti-poeti abbiano scelto il ciclismo per esercitare la loro attività professionale, che poi è diventata per loro, sono sicuro, una ragione di vita.
Ricordo ancora certi passaggi di Raschi “è stato un Giro irrazionale per eccesso di razionalità….”, quello vinto da Pollentier ai danni di un certo F. Moser. E sono passati più di 40 anni……
Oppure il titolo di un pezzo di Ormezzano dopo la cronometro che segnò la terza vittoria di Hinault al giro “Moser, 5 secondi per 47 chilometri”, in cui c’era tutta la malinconia che Moser aveva vinto, ma aveva perso. E ricordo di quando un giovanetto, di nome F. Moser, sfidava apertamente un incontrastato dominatore che aveva, come un dio dell’Olimpo, fama di invincibilità (E. Merckx).
Ma perché nella memoria si inseguono, confondendosi, immagini di biciclette cavalcate sulle strade e le parole dei giornalisti-poeti? Perché in altri sport non si è verificata una simile alchimia? Perché…?

X Frondriestbike
18 novembre 2020 23:59 italia
Perchè il ciclismo si identificava con il popolo, ma quello umile, onesto, laborioso, lavoratore; la popolarità di quei campioni è qualcosa di assoluto; il campione di ciclismo stava sulla strada, lo potevi guardare passare vicino a te, lo potevi avvicinare appena finita la corsa, gli potevi parlare o vederlo da vicino; è qualcosa comprensibile soltanto a coloro che hanno vissuto quell’epoca; mi ricordo un trasmissione che raccontava di come Vito Taccone fu accolto nella sua città di ritorno dal giro.
Inoltre il ciclista non guadagnava in maniera esorbitante, rispetto a campioni di altri sport ( addirittura si raccontava di un gregario che al giro d’Italia non mangiava i panini durante la corsa per portarli a casa per sfamare la propria famiglia)e questo lo avvicinava al popolo; quando dopo le corse gli potevi parlare era come se parlassi con un amico.
Nulla a che vedere con gli sportivi di oggi.
E questa fatica, durezza, asprezza ha affascinato giustamente molti giornalisti e ne è nata un’epopea bellissima, travolgente, emozionante.
E ribadisco, non per essere fuori dal coro ma per evidenziare delle realtà sconosciute, che purtroppo questa situazione è stata la sua rovina, perché chi manovrava e decideva le sorti del mondo (queste organizzazioni esistono ed agiscono veramente!!) di quell’epoca voleva costruire ed ha costruito un altro tipo di società diametralmente opposta ai valori espressi dal ciclismo ( il ciclismo per anni è stato per loro un durissimo avversario da distruggere).
Saluti

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