Lo scorso anno il Giro delle Fiandre si concluse con una doppia vittoria italiana, firmata da Alberto Bettiol e Marta Bastianelli. Marta e la sua squadra sono in quarantena adesso (dopo un caso di positività registrato alla vigilia della Gand-Wevelgem) e a difendere il titolo troveremo solo Bettiol, che sul traguardo di Oudenarde conquistò la sua prima vittoria da professionista. Domani il toscano partirà con la voglia di vincere ancora, perché questa corsa gli è entrata nel sangue. Ha vinto già Alberto sulle strade del Belgio, lo ha fatto una volta e vuole continuare a farlo, per se stesso e per dimostrare di poter competere con gli specialisti delle Classiche.
Che tipo di squadra sarà la sua EF Pro Cycling domani?
«Io penso che siamo la squadra più forte quest’anno. Siamo migliorati dallo scorso anno, abbiamo corridori di esperienza ma anche giovani. Siamo carichi e motivati e sappiamo bene cosa fare».
Che gara vorrebbe vedere?
«E’ una gara aperta a mille scenari, il Fiandre. Mi piacerebbe vincere come lo scorso anno. Ormai gli ultimi 18 chilometri non mi fanno più paura e quest’anno sarà una gara diversa per molti aspetti».
Ci spieghi meglio.
«Tanto per cominciare corriamo in ottobre e non in aprile e correremo dopo il Tour e il Mondiale, che non tutti hanno fatto. Sarà anche una versione un po’ più corta e con temperature più basse alle quali non tutti sono abituati. Il ritmo sarà subito alto e i migliori staranno immediatamente davanti».
Chi saranno i favoriti?
«Tutti si aspettano la sfida tra Van der Poel e Van Aert, qui in Belgio sembra ormai un affare di Stato. Io ci metterei anche Alaphilippe che vuole vincere una classica dopo la delusione alla Liegi. In ogni caso ci sono almeno una decina di corridori che potrebbero vincere domani».
Qual è il segreto per vincere il Giro delle Fiandre?
«Si vince osando e rischiando e con la mente fredda e lucida, ma aperta a tanti scenari. Perché alla fine il Giro delle Fiandre è come una partita a scacchi. Devi seguire cosa fa l’avversario e poi fare le tue mosse».
Cosa le ha insegnato questa corsa?
«Ho imparato a riconoscere i miei limiti, cosa vuol dire essere sotto i riflettori e poi mi ha cambiato a livello di notorietà. Prima di vincere lo scorso anno, ero uno in seconda linea e adesso sono considerato un protagonista».
Con la Deceuninck-Quick Step ci sono state delle polemiche. Cosa è successo?
«Ieri in conferenza stampa alcuni giornalisti belgi hanno voluto riprendere una battuta che feci lo scorso anno a fine gara alla Deceuninck, considerandola la squadra più forte del Belgio. C’era stata poi una battuta di Evenpoel ma io non ho risposto».
Cosa pensi riguardo la dichiarazione del tuo team sulla chiusura anticipata del Giro.
«Non voglio aprire polemiche, seguo la linea del nostro Fabrizio Guidi, abbassiamo i toni e pensiamo di più al ciclismo. Il Giro d’Italia è una bellissima corsa e sono certo che arriverà a Milano».
Lei ha corso in questa stagione sia al Tour che alle gare organizzate da Flanders Classics e RCS. Riguardo al Coronavirus ha visto attenzioni diverse?
«Prima di tutto vorrei far capire alla gente che gestire una corsa a tappe è molto più complicato rispetto ad una corsa di un giorno e poi concordo con quanto detto da Trentin: il lavoro grande è stato fatto dai team. La mia forse è una delle squadre più rigide, tanto che corriamo solo corse WorldTour, quelle minori non le facciamo. Eseguiamo anche più tamponi rispetto a quelli richiesti dall’UCI. Ad esempio tra la Liegi_Bastogne-Liegi e la Gand-Wevelgem abbiamo fatto un ulteriore tampone anche se non serviva. Non riceviamo visite da parte di nessuno, non usciamo dalle camere e quando siamo a tavola mettiamo la mascherina ogni volta che ci alziamo. Non entriamo neanche nei bar a prendere un caffè o a comprare il giornale. Tutto è sigillato e ci viene dato dalla squadra. Il Tour è stata l’unica corsa a tappe che ho fatto e nei nostri alberghi non c’è mai stato nessuno dell’organizzazione. Mangiavamo in salette private e avevamo percorsi differenziati dagli altri anche per entrare ed uscire. Noi sapevamo che c’erano altre squadre perché vedevamo i mezzi, ma non abbiamo mai incontrato fisicamente nessuno».
Lei si sente sicuro in corsa?
«Dobbiamo partire dal presupposto che, dal momento in cui usciamo di casa, siamo tutti esposti. Prendiamo il taxi per andare in aeroporto, saliamo negli aerei e sostiamo nelle sale d’attesa per i vari scali. Non possiamo pretendere di vivere in una bolla integrale, perché dal momento in cui noi lasciamo gli hotel ed entriamo in corsa, volenti o nolenti usciamo dalla bolla vigilata dalla squadra e siamo esposti. Poi bisogna essere attenti singolarmente, io ho gel e salviette disinfettanti e ho diverse mascherine con me. Onestamente non credo che RCS stia facendo meno rispetto ad ASO, dobbiamo ricordarci che il Tour è partito da Nizza che era zona rossa, la gente quasi non poteva uscire di casa e abbiamo attraversato altre zone rischiose. L’Italia non è zona rossa».
Da poco è venuto a mancare Mauro Battaglin, suo procuratore e grande amico. Che rapporto avevate?
«Mauro non era solo un procuratore, è impossibile descriverlo. Con me è stato un padre, un nonno, un fratello, per tanti aspetti mi ha insegnato a vivere e mi piacerebbe vincere anche per lui».
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