Dormiva nove ore a notte, consumava quattro pasti a (“Pasta, legumi, marmellata, uova, banane, pesce e datteri”), beveva mezzo litro di vino (“A pranzo e a cena”). Allenamenti, duri. Scuola, poca. Fumo, zero. Sesso, chissà. Nel tempo libero, caccia e pesca. “Il consiglio migliore? Un gran cuore e una costanza senza limiti”.
Ritrovo Federico Gay su un libro del 1934, “Così si diventa campioni” (di Guido Mantovani, Hoepli editore, 416 pagine, 16,50 lire), non ricordo più se ereditato da un cultore, rispolverato da una cantina o reperito su una bancarella. “Che atleti si nasca e non si diventi per semplice allenamento – scrive l’autore, che era un medico – è un fatto sul quale ormai convengono i migliori studiosi dell’argomento”, anche se “è vero che si possono distinguere atleti di razza o puro sangue, ed atleti di acquisto o di occasione”. La medicina dello sport ha avuto la sua evoluzione.
Gay, torinese, fu professionista dal 1920 al 1932. In un’epoca dominata da Girardengo, Bottecchia e Binda, restavano briciole. Lui conquistò – fra l’altro – quattro tappe al Giro d’Italia e una al Tour de France, si laureò campione italiano su strada (juniores, una sorta di Under 25) e in pista (mezzofondo). Si fece onore. E qui racconta tre episodi fondamentali nella sua carriera.
Il primo nella Milano-Torino del 1921: “Sulla salita di Pettinengo, rimasto con Brunero, Girardengo ed Aimo, fui colpito da improvviso malore e conseguente grave caduta. Ma ripresomi, non badai alla ferita, e riuscii, in un inseguimento di 70 chilometri e tutto solo, a raggiungere i fuggitivi e a batterli poi in volata”.
Il secondo fu nel Tour del 1922: “Nella prima tappa, Baiona-Luchon. Sul colle d’Ubisque, perdetti il mio sacco di vivere che non mi curai di rintracciare per tema di perdere il gruppo; ma in apprezzo per la fame non tardarono a venirmi meno le forze, per cui anche qui caddi in condizioni pietose; mi trascinai comunque disperatamente, sinché scorsi del pane, certamente perso da altri compagni di lotta; e mi bastò essermi rifocillato così per riprendere una disperata fuga, raggiungendo Bellanger, Jaquinot e Masson, sino ad arrivare primo al traguardo”.
Il terzo fu nella Zurigo-Berlino del 1925: “Per essere in testa alla classifica, gli avversari tentarono di demolirmi in una disgraziata panne che potei riparare a stento ma così da potermi mettere all’inseguimento dei fuggitivi che raggiunsi al controllo di Lipsia. Mi sentivo comunque fisicamente esausto pur cercando di non darlo a divedere a nessuno, così che potei entrare in gruppo al Grunwal di Berlino, e dopo un’irresistibile volata (80 erano i concorrenti in pista) attraversavo vittorioso il traguardo”.
O Gay si confuse o Mantovani pasticciò, comunque nessuno controllò, ma la vittoria al Tour non fu alla Baiona-Luchon (sesta tappa) ma alla Strasburgo-Metz (tredicesima), Bellenger si chiamava Bellanger e Jaquinot era scritto Jacquinot, e il Grunwal di Berlino era l’ippodromo Grunewald. Quanto a Baiona (Bayonne) e Ubisque (Aubisque), a quel tempo si cercava di italianizzare il più possibile. Ma amen.
Gay aggiungeva: “L’allenamento dipende dalla costituzione fisica dell’atleta: se il corridore è longilineo (levriero), deve allenarsi su un percorso breve (70 chilometri), compiendoli velocemente; se invece il corridore è di tipo robusto deve allenarsi su un percorso lungo e severo a grande andatura”. Anche la scienza dello sport ha avuto la sua evoluzione. Gay concludeva: “Comunque ricordo che occorre una volontà quasi selvaggia di voler riuscire a tutti i costi”. E quella “volontà quasi selvaggia” è, a distanza di 86 anni, identica e perfetta.
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