Lo si incontrava spesso alle corse. Un giorno, finalmente, si trovò il tempo per una chiacchierata. Non si sentiva stimato, non abbastanza, e non si sentiva amato, mai abbastanza. Loretto Petrucci fu una vittima di Fausto Coppi, che lo accusava di alto tradimento e che gli mise contro il gruppo. Con me si sfogò: tre fogli di appunti fitti (ed è la trentaquattresima puntata)
“1948, Porto Sant’Elpidio, preolimpica: vinsi battendo Alfo Ferrari. E con Ferrari e Silvio Pedroni fui convocato per i Giochi di Londra. Fu un disastro. Si viaggiava contromano: ci vollero due mesi per ambientarci. E non ci davano da mangiare: cassetta di legno, cuore di pietra, come al militare. In gara stavamo sulle gambe, e ci ritirammo tutti”.
“Rientrammo in Italia. Trenta giorni dopo, a forza di pasta e bistecca, vinsi una corsa di 190 chilometri, ed eravamo dilettanti, poi altre, in totale 10. Cominciai il 1949 da indipendente, ottenni sei vittorie, l’ultima il Gran premio Pirelli davanti a Minardi e Albani, e tutti e tre finimmo alla Legnano”.
“Babbo calzolaio, mamma casalinga, un primo figlio, Vasco, del 1924, poi un secondo, aspettavano una femmina, ma arrivai io, del 1929. Sorpresi, i miei genitori non sapevano come chiamarmi. Siccome per la femmina avevano pensato a Loretta, in onore di un’attrice americana, Loretta Young, lì per lì il babbo mi chiamò Loretto. Qualche giorno dopo, quando mi registrarono in Comune, chiesero se avessi un secondo nome, e lì per lì il babbo non seppe che cosa dire. Ci pensò l’impiegato dell’anagrafe: e di sua iniziativa mise Benito”.
“La prima bici era da bambino, aveva ruotine del 24, la prima garetta la feci a otto-dieci anni, poi crescendo le vincevo tutte, e si cambiò la bici con una più grande. Sicché dopo la guerra ebbi una bici nuova, però da donna, e con questa partecipai a gare fra ragazzi. Avevo 15 anni. Si faceva il giro delle montagne pistoiesi: Piastre, Porretta, Passo della Collina, 65 chilometri. Finché, a 18 anni, con l’autorizzazione del babbo, presi la tessera da corridore, e poi finalmente anche una bici da corridore, usata, quella di un professionista pistoiese, Sergio Degl’Innocenti, campione italiano in pista nel 1947 e 1948. E feci cinque vittorie da allievo e cinque o sei da dilettante”.
“1951, Giro del Piemonte, con la Bianchi. Ero nella stessa camera di Serse Coppi. Quel giorno cadde e poi morì. Era un ragazzo allegro, un amico squisito”.
“Fausto Coppi – sua maestà Coppi - mi odiava da quando avevo vinto la Milano-Sanremo nel 1952. Mollato dalla Bianchi e passato alla Lygie, nel 1953 fui primo, nel 1954 quinto perché ostacolato e trattenuto”
“In Belgio le corse mi piacevano tutte. Kermesse da 150-200 chilometri, quasi tutti i giorni, vere e proprie battaglie. Tra ingaggi e premi pagavano bene, e si guadagnava bene. La prima volta in Belgio già nel 1951. Da solo, anzi, da isolato, con la maglia della Taurea, una valigia e la bici, in treno. C’era anche Fiorenzo Magni. Feci il Giro delle Fiandre, andai in fuga proprio con lui, poi il pavè e i muretti, cascai, mi staccai, Magni vinse, io arrivai quarto. Nel 1952 feci secondo, nel 1953 quinto”.
“Quel Giro delle Fiandre del 1952 me lo rubarono. Ero in fuga con due belgi, Briek Schotte, due volte campione del mondo, e Roger Decock, uno sconosciuto. Quei due erano d’accordo. Mentre stavo per partire e vincere, ai 100-200 metri Schotte mi chiuse alle transenne e mi buttò verso la gente, fui costretto a frenare e ripartire, rimontai Schotte, ma non Decock. Feci reclamo, ma fu inutile. Ridevano. Erano nazionalisti”.
“Nel 1955 vinsi il Giro del Lazio, in volata su Luciano Maggini al Motovelodromo Appio. Ma era una corsa a scartamento ridotto, non valeva nulla, e dissi basta”.
“Invece corsi altri due anni alla Girardengo. Ma Coppi aveva ordinato di non farmi più vincere, anche buttandomi a terra. E presi quasi un esaurimento nervoso”.
“Nel 1968, avevo 38 anni, mi accasai all’Amaro 18 Isolabella, una squadra svizzera. Voglio vedere se sono vivo o morto, mi dissi. Provai. Ma ero morto. E stavolta fu proprio la mia fine da corridore”.
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