Oggi si sarebbe dovuta correre la Parigi-Roubaix per la centodiciottesima volta, ma anche la Regina delle classiche è stata differita a giorni migliori (probabile lo spostamento al 18 ottobre, dopo il Fiandre dell’11 e prima della Sanremo del 24) per emergenza coronavirus. Quarant’anni fa domani, Francesco Moser vinceva la sua terza Roubaix consecutiva, precedendo di 1’48” Gilbert Duclos Lassalle, e di 3’30” il tedesco Didier Thurau. Quarto, ad oltre 6’, Bernard Hinault.
Abbiamo raggiunto telefonicamente il campione di Palù nel suo maso appena fuori Trento, tra le sue vigne e la sua terra.
Moser, come trascorre il tempo in questo momento molto difficile per tutti?
«Lavoro più di prima, dalla mattina alla sera. Pensi che prima del blocco delle attività pesavo 82 chili, adesso 77: sono in forma smagliante. Sto rifacendo tutto l’impianto d’irrigazione. Qui non piove e la terra sta soffrendo tanto. Ci stiamo preparando per la ripartenza».
È già chiaramente proiettato in avanti, ma facciamo un passo indietro: cosa ricorda di quel magico 13 aprile 1980?
«Stavo benissimo, corsa sempre nelle prime posizioni, giornata senza pioggia, poi nel finale a 25 km dal traguardo vado via in progressione e non vedo più nessuno. È una delle mie 273 vittorie da professionisti che mi porto nel cuore con più piacere. Ero chiaramente il favorito numero uno e da numero uno vinsi».
Dal 1978 al 1980 è sempre arrivato da solo su quella pista che ha scritto la storia del ciclismo.
«La prima volta in maglia iridata, con De Vlaeminck che ne aveva già vinte quattro e che correva con me e quindi non poteva inseguirmi. Mi raccontarono in seguito che provò a convincere con dei soldi il connazionale Maertens a tirare, ma non so se sia vero. Vinsi davanti a Roger e a Raas. La seconda vittoria sempre davanti a Roger e Kuiper, ma io sempre da solo. Insomma, io lassù mi sono sempre trovato molto bene. Corsa difficile ma anche facile, perché se ci arrivi preparato e corri nelle posizioni di testa, lontano dal podio non ci vai. È una corsa di potenza e resistenza, io l’ho sempre amata».
È vero che il cubo di pavé come trofeo è un’idea che ha dato lei agli organizzatori?
«Per le prime due vittorie mi diedero una medaglietta, che era insignificante. Dissi: ma regalate qualcosa che sia identificativo di una corsa unica al mondo, che ne so, un pezzo di pavé. Io lo dissi a mo’ di battuta, l’anno seguente mi diedero come trofeo un pezzo di pavé, che badate bene, non sono pietre ma veri blocchi di quasi 20 centimetri per 20».
Poteva esserci anche il poker, se lei non avesse perso la volata con Bernard Hinault.
«Bernard non ha mai amato questa corsa, l’ha sempre considerata anti-ciclismo, e per questo anacronistica. Quell’anno arrivammo al velodromo in sei: io, De Vlaeminck, Hinault, Van Calster, Demeyer e Kuiper. Insomma, i soliti. Per la volata ero convinto che fosse una questione tra me e Roger. Invece Hinault ci ha beffato clamorosamente. È entrato nel velodromo e si è messo subito davanti. All'ultimo giro non si è mosso da quella posizione, continuando a mulinare sempre più forte, impedendo ad entrambi di uscire dalla sua ruota: lui primo, Roger secondo e io terzo. Mi girano ancora…».
Sa che non vinciamo la Regina delle classiche dal secolo scorso: 1999, Andrea Tafi…
«Ne parlavo in questi giorni: è pazzesco. Nel Duemila abbiamo solo raccolto qualche bel piazzamento nei tre (con Pieri, Pozzato o Ballan, ndr) ma non siamo stati più capaci di vincerla. Manca la scuola, il coraggio, la voglia di osare. Però sono convinto che prima o poi ce la faremo. Punto su Gianni Moscon, un trentino come me».