Il nome, Udillo, è misterioso. Il cognome, Badoer, è nobile. La sua storia comincia nel 1933, a Codevigo, a metà strada fra Padova e Chioggia. Ed è una storia stradale.
BAR “Nato nel 1933 in una famiglia di origini commerciali: avevamo un bar-trattoria a Fiesso d’Artico. Quinta elementare, poi barista”.
BICI “Ma la bicicletta era una passione. E correre mi piaceva. Due anni da allievo e due da dilettanti, nella Società ciclistica Giulio Bartali, ma senza risultati. Scesi dalla bici e salii in macchina. E da direttore sportivo i risultati finalmente arrivarono”.
SOCIETA’ “Era il 1959 quando fondai la Società ciclistica Fiesso d’Artico, dove c’era già il nostro bar-trattoria, con allievi e dilettanti. A sostenerla coinvolsi Alessandro Vittadello, che a Mestre aveva un’industria di confezioni di abbigliamento”.
SQUADRA “Nel 1965 Vittadello, appassionatissimo, decise di passare la squadra al professionismo. Lo aiutai a trovare i corridori. Ma siccome era già febbraio, cercai fra quelli senza squadra. Tra confermati e ingaggiati, la nuova squadra poteva contare su Severino Andreoli, Aristide Baldan, Renzo Baldan, Graziano Battistini, Lorenzo Carminati, Danilo Ferrari, Giovanni Knapp, Vincenzo Meco, Angelo Ottaviani, Aldo Pifferi, Alfredo Sabbadin e Pietro Zoppas. Ci chiamavano ‘la squadra dei disoccupati’”.
VITTORIA “La prima vittoria con Ferrari a Mirandola. Poi il Giro d’Italia. Knapp e Zoppas rimasero a casa, Meco e Aristide Baldan ci tornarono, però conquistammo due tappe, con Pifferi in volata a Torino e con Battistini da solo sullo Stelvio, la prima Cima Coppi nella storia del Giro. E pensare che Battistini, secondo al Tour de France del 1960, da tre anni non vinceva”.
STUPORE “Fu una soddisfazione enorme. Arrivati in sordina, disturbavamo molto. E negli occhi degli altri direttori sportivi, certi santoni come Pavesi, Sivocci, Pezzi e Albani, leggevo lo stupore”.
MOTTO “Il mio motto era: sempre all’attacco. Non avevo tattiche, detestavo aspettare l’ultima salita o individuare un punto strategico. L’importante era andare in fuga, sempre, meglio subito, all’avventura, allo sbaraglio. E questo modo di correre piaceva anche a Vittadello”.
SQUALIFICA “Poi venni squalificato. L’accusa era quella di correre da garibaldino: entravo scorrettamente in gruppo per rifornire di borracce i miei corridori. Il giudice mi diede sei mesi. Una punizione giusta, stando al regolamento, ma eccessiva: in fin dei conti, ai miei ragazzi, stavo facendo solo del bene”.
MOSTRA “Quando la squalifica si esaurì, tornai alla Vittadello. Non più come direttore sportivo, ma come collaboratore, senza incarico ufficiale. Facevo un po’ di tutto. Vittadello era contento, gli piaceva, si divertiva. La squadra si rafforzò: arrivarono Dancelli, De Rosso, Taccone, Schiavon, Vigna... E quella maglia con la V, inventata dal nipote di Vittadello e adottata fin dal secondo anno, ci metteva in mostra”.
FORZA “Il corridore più forte? Renato Bonso, di Marano di Mira: nel 1964 era dilettante con me, poi passò alla Mainetti e alla Gbc, aveva un potenziale enorme, amava la bici come se stesso, ma amava ancora di più mangiare”.
FURBIZIA “Il corridore più furbo? Endrio Leoni, di Dolo. Misurava la fatica con il bilancino del farmacista, ma ai -2 era là davanti a giocarsela in volata, aveva un cambio di velocità come nessun altro, e due volte, al Giro d’Italia del 1992, ha battuto Mario Cipollini, e una volta, al Giro del 1994, Giovanni Lombardi, con tanto di maglia rosa”.
DONNE “Il corridore più donnaiolo? Lorenzo Carminati di Zogno, a due passi da Sedrina, dov’era nato Gimondi. Ma anche Michele Dancelli ci sapeva fare all’infinito: potevi chiuderlo a chiave in camera e poi, senza neanche accorgertene, ti ritrovavi la chiave in tasca e la camera vuota”.
SOLIDARIETA’ “Ufficiale della Repubblica italiana per meriti sportivi. Sempre in prima linea con il ciclismo, da direttore sportivo e per solidarietà. Nella mia vita ho sempre pensato più agli altri che a me”.
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