In questa puntata (l’undicesima, che non avrebbe dovuto più esserci, ma a grande richiesta sono tornato sui miei passi, anzi, sulle mie pedalate) si va da Bruno Pontisso ad Andrea Pasqualon passando per Alfredo Martini, Giovannino Corrieri, Danilo Barozzi, Imerio Massignan e Juan Antonio Flecha.
“Gino Bartali, la prima telefonata appena arrivava a Roma, era nel mio negozio. ‘Bruno, sono arrivato’. Gli domandavo: ‘’Ndo stai?’. E lui: ‘Qua’. Era l’albergo Piemonte, vicino alla stazione Termini” (Bruno Pontisso).
“Gastone Nencini era un campione completo, anche se nelle corse in linea non si preparava bene, un po’ come Jacques Amquetil, ma non gli mancava nulla. Era forte, coraggioso, resistente. E’ sempre stato considerato meno di quello che era, perché amava stare dietro le quinte” (Alfredo Martini).
“Hugo Koblet era bello, bello in tutti i sensi, su e giù dalla bici. E, tranne che in volata, volava” (Alfredo Martini).
“Negli ultimi tempi, in casa, a letto, mi sento come un guardiano del faro. Ma voglio pensare che non siano giorni sprecati. Va vissuta anche la vita che non si vorrebbe” (Alfredo Martini).
“La gente ha sempre voluto bene ai corridori, perché è vicina a chi fa fatica” (Alfredo Martini).
“Il primo ricordo? Si aspettava che il babbo tornasse dal lavoro e che ci raccontasse com’era andata. Cuoceva le ceramiche alla Richard Ginori. Per me era il dio del fuoco” (Alfredo Martini).
“Un corridore deve andare con le sue gambe, altrimenti che corridore è?” (Giovannino Corrieri).
“Fino al 1945 correvo da libero, poi fui tesserato per la Azzini di Milano. Uno squadrone. Ma la maglia era di cotonaccio e mi arrivava alle ginocchia” (Danilo Barozzi).
“Alfredo Binda, c.t. dell’Italia al Tour de France, era ‘il commendatore’. Eppure a tavola si alzava per prenderci l’olio e il sale” (Danilo Barozzi).
“Trentacinque volte primo nei gran premi della montagna al Tour de France. Ero scalatore per natura. Sul Muro di Sormano sono passato tre volte primo, ma il record appartiene a Ercole Baldini... Si saliva con il 44x25, non c’era altro, e non si stava tanto sui pedali perché la ruota slittava” (Imerio Massignan).
“Il mio ultimo anno da professionista, il 1970, avevo 33 anni e ormai ero un po’ andato. Facevo il gregario. Aiutavo i miei capitani in salita e poi mi staccavo” (Imerio Massignan).
“La prima bicicletta che mi ricordo è quella di mia sorella quando era piccola. Un’Aurorita, blu e celeste, con le rotelle. Fu mia nonna a farmi imparare, tenendomi per la sella: ricordo l’istante in cui guadagnai la magia dell’equilibrio e la sensazione della libertà, ma non dell’onnipotenza, perché durò poco. Infatti caddi” (Juan Antonio Flecha).
“La prima bicicletta da corsa a sette anni. Una Sicilia, fabbricata a Junin, il mio paese vicino a Buenos Aires: grigia, a ruota libera, ma con un solo rapporto e un solo freno. Con quella partecipai alla prima corsa: giunsi terzo, mica male, considerando che a partecipare eravamo più di tre” (Juan Antonio Flecha).
“Le discese sono il mio forte, ho le traiettorie nel sangue: da piccolo con gli sci, poi con la bici. Il guaio sono le salite” (Andrea Pasqualon).
“Bici a parte, la mia passione è la caccia. Con il fucile del nonno, precisissimo. Ma per rispetto della natura, si tratta di caccia di selezione, con un certo numero di capi assegnati, un capriolo per ciascuna squadra” (Andrea Pasqualon).
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