Prima corridore, poi direttore sportivo, infine direttore di corsa, Giorgio Albani ha attraversato il Novecento e scollinato nel Duemila, un gran bel tratto nella storia del ciclismo. Per lui solo aggettivi sani: perché era un uomo buono, saggio, giusto. E le sue parole erano illuminanti e definitive come una carta stradale. Queste sono state resuscitate da fogli e foglietti sperduti nei miei cassetti (decima e ultima puntata)
“Avevo fatto la terza professionale. Nel 1943 lavoravo cone garzone nel magazzino di una ditta di abbigliamento. Poi mi venne la passione per la bicicletta. E nel 1944 quelli che avevano la bici erano soltanto i signori” (Giorgio Albani).
“Solo chi vinceva, tornava a casa sulla motocarrozzetta del direttore sportivo” (Giorgio Albani).
“Quando si correva a Milano, all’Arena, ci si cambiava nel negozio di Sala Sport, in via Cesariano“ (Giorgio Albani).
“Dilettante al Pedale Monzese, ero assistito dalla Bianchi. Fui segnalato a Eberardo Pavesi, l’Avocatt, da Mario Della Torre, il ‘sciur Mario’, patron della Legnano. Spiegai che, prima di decidere, avrei dovuto aspettare Giovanni Tragella, direttore sportivo della Bianchi. Quando lo incontrai, Tragella mi disse: ‘Vai di là. Per prendere te, devo cacciarne uno’. Così, con ‘Lupo’ Mascheroni, il meccanico, andai nella sede della Legnano a Milano in via Cicco Simonetta. Tutti e due in bicicletta” (Giorgio Albani).
“Il campione si riconosce anche dalla caviglia stretta e dalla coscia bella, non dai muscoli. I muscoli sono un peso da portare in giro. Coppi in bici era perfetto, a piedi disgraziato. Merckx aveva la taglia atletica perfetta per faticare e recuperare, e una fame insaziabile per lottare e vincere sempre” (Giorgio Albani).
“Il corridore deve essere egoista: può fare anche qualche favore, ma sempre con gli interessi” (Giorgio Albani).
“Il primo anno da direttore sportivo, il 1960, dirigevo corridori che avevano corso con me. Autorità: zero. Dal 1963 in poi erano ormai tutti corridori di un’alyra generazione: e mi davano del lei” (Giorgio Albani).
“Milano-Sanremo 1970. Michele Dancelli aveva il dono dell’istinto. Mancavano duecento chilometri all’arrivo quando entrò in una fuga con altri diciassette. Una pazzia, anche se c’era gente come Rik Van Looy, Italo Zilioli, Walter Godefroot, Eric e Roger De Vlaeminck, Gerben Karstens, Franco Bitossi, Eric Leman... (e ancora: Aldo Moser, Rolf Wolfshol, Jozef Huysmans, il campione del mondo Harm Ottenbros, Herman Van Loo, Adriano Pella, Mauro Simonetti e Luciano Soave, ndr). C’era anche il nostro Carletto Chiappano. Dopo il traguardo volante di Loano, a una settantina di chilometri dall’arrivo, andò via da solo. ‘Ossignùr’, pensai. Poi cercai di ragionare. E a Chiappano spiegai: ‘C’è la rivalità fra i belgi: Val Looy, Leman, De Vlaeminck... Di’ a Rik di rimanere neutrale e di far lavorare Leman’. Chiappano riferì e tornò all’ammiraglia: ‘Tutto ok’. Ma non credo che glielo abbia mai detto. Gli altri italiani erano tutti d’accordo a risparmiarsi: erano diciassette anni che non vinceva uno dei nostri, sembrava una corsa stregata. A quel punto mi portai su Dancelli. La gente, sul Poggio, impazziva” (Giorgio Albani).
“Fu a quel punto che Pietro Molteni, dall’ammiraglia, urlò a Dancelli: ‘Se te ghe la fet, te regali anca el stabiliment’” (Giorgio Albani).
“Rudi Altig, forte e allegro, due anni con noi alla Molteni. Durante le corse a tappe, veniva a cercarci in albergo. Nella Salvarani c’era disciplina e serietà, alla Molteni c’era sempre da ridere e scherzare” (Giorgio Albani).
“Il fisico si adegua al mezzo: lo scalatore si asciuga, il velocista si irrobustisce. Il più bello in bici? Jacques Anquetil” (Giorgio Albani).
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