Lo chiamavano “il Pennellone”. Perché – nelle parole appassionate della moglie Anna - era alto, secco e bello come un attore. Tanto da ricevere proposte per partecipare, da attore, a qualche film, ma lui niente – sempre nelle parole stavolta perplesse della moglie Anna – perché troppo innamorato della bicicletta e del ciclismo.
Il 30 gennaio è morto Nello Fabbri “il Pennellone”. Il 15 marzo avrebbe compiuto 86 anni. Era romano de Roma, nato a Roma e morto a Roma, anzi, Roma nord, Cassia, Giustiniana. La sua casa era una specie di ranch, una succursale del Far West a due passi dallo Stadio Olimpico e a quattro dal Colosseo, fra allevamento di cavalli e asilo di cani, sterrati e ginestre. Sugli scaffali le coppe, alle pareti le foto, negli album i ritagli di una vita da corridore.
Dieci anni da professionista, Nello, dal 1954 al 1963, tra Legnano, Bianchi, Ignis e Springoil. Veloce quanto bastava per aggiudicarsi il campionato italiano dilettanti nel 1953, il Giro di Toscana e la Sassari-Cagliari nel 1956 e la Milano-Torino nel 1959. Uno specialista da classiche (piazzato alle Milano-Sanremo e ai Giri di Lombardia), se solo si fosse applicato un po’ di più (alla preparazione) e dedicato un po’ di meno (ai capitani). Lui citava innumerevoli casi in cui i corridori da Firenze in giù venivano penalizzati e, perdipiù, i romani dai toscani osteggiati.
Fabbri raccontava della mamma Luigia cuoca, diventata casalinga per badare ai cinque figli tutti maschi, e del padre Antonio detto Tognò contadino, ma minatore quando emigrò negli Stati Uniti, tornato perché malato di silicosi. Raccontava della prima vittoria, con la squadra del vicino quartiere di Monte Mario, niente maglia ma canottiera, poco talento e molta forza, e delle corse, in bici da casa alla partenza, poi la gara, infine in bici dall’arrivo a casa, tant’è che usciva che era ancora buio e tornava che era già buio. Raccontava dei suoi compagni di avventura (dai Pontisso a Ciancola, da Conti a Ranucci e Trapè), dei campioni (più coppiano che bartaliano, ma i toscani – lo ripeteva – osteggiavano i romani), della passione per la caccia (prima fabbricando cartucce, poi aprendo un’armeria convertita in negozio di articoli sportivi, e proprio per non mollare il lavoro – spiegava – aveva rifiutato l’invito al safari in Africa proprio con Coppi). Coppi aveva illuminato anche lui (e lui me lo aveva descritto per il mio libro “Coppi ultimo”): raccontava che Fausto era forte e affabile, che gli doveva dei soldi ma poi purtroppo è morto prima di darglieli, e che la Dama Bianca se li era “magnati” tutti.
Negli ultimi tempi “il Pennellone” si stava piegando: ai chilometri percorsi, agli anni accumulati, ai ricordi sbiaditi. Risparmiava nelle parole e nei gesti, stava in scia alla moglie e alle due figlie, Antonella e Cinzia, e quando si affacciava alla finestra forse sognava di essere non più un corridore, ma un cowboy. Comunque a cavallo.
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