«Di solito i “capi” stanno per i fatti loro, invece lui sta volentieri in mezzo a noi, ci tiene a sapere come stiamo, si interessa a noi per davvero». Così parla uno dei nuovi innesti del Wolfpack in riferimento a Patrick Lefevere, team manager della Deceuninck Quick Step, che ha da sempre dato peso all’affiatamento del gruppo, vero valore aggiunto della sua squadra. Il 6 gennaio ha compiuto 65 anni e da quel giorno il tecnico belga potrebbe godersi la meritata pensione, ma di rilassarsi a casa non ha ancora alcuna intenzione, come ci ha confidato a Calpe prima di cominciare l’ennesima stagione al timone della squadra più vincente in circolazione. Nonostante la partenza di numerosi corridori importanti, da Philippe Gilbert a Elia Viviani, la sfida per il 2020 è mantenere lo stesso incredibile livello di risultati.
56 vittorie nel 2017, 73 nel 2018, 68 nel 2019. Solo per restare agli ultimi anni. Come si fa?
«Semplicemente si fa. Non posso contare sul budget più alto in gruppo, così investo sui giovani, cerco di scoprire talenti, come abbiamo fatto anche quest’anno. Si parla spesso di imporre un budget cap per le squadre ma non lo ritengo giusto. Io sono democratico: è il mercato a decidere le gerarchie di partenza poi ognuno con i soldi che ha deve fare del proprio meglio. Chiaramente non è facile confrontarsi con realtà come Ineos che possono ingaggiare i migliori atleti, ma se domani trovassi qualcuno che mi offrisse 40 milioni non li rifiuterei e mi terrei stretto anche io i corridori più quotati. Quest’anno abbiamo ingaggiato 11 nuovi atleti e, come da abitudine, non abbiamo fatto pazzie per tenere nessuno».
Magari nei prossimi anni le farete per Evenepoel.
«Non è nella nostra filosofia, anche se sua mamma è molto bella (scherza, ndr). Ho sempre avuto un debole per i giovani. Da Frank Vandenbroucke a tanti altri. Il ciclismo professionistico è cambiato moltissimo da quando correvo io (nella sua carriera ha vinto la Kuurne-Bruxelles- Kuurne ed una tappa alla Vuelta 1978, ndr), fin dagli inizi mi sono ripromesso di lavorare perché diventasse migliore per le generazioni future. Dove può arrivare Remco? Solo Dio lo sa… ».
Le è dispiaciuto lasciar andar via Viviani?
«Ho tanto rispetto per gli atleti, al punto che quando ricevono proposte remunerative con le quali non posso competere, non faccio perdere loro tempo. Elia è un professionista serio ed è stato un piacere lavorare con lui. Cedric Vasseur (che mi vede un po’ come il suo maestro) mi ha chiamato un giorno dicendo di avere un buon budget per il 2020 e anticipandomi che voleva prenderlo. So che Elia sarebbe voluto restare con noi ma a 30 anni ha ricevuto un’offerta che noi non potevamo pareggiare, quindi ha fatto bene ad accettarla. Alla sua età non basta solo pensare a dove ti piace stare ma devi iniziare a pensare anche a quanto hai in banca visto che le carriere non sono eterne».
È convinto che con questa maglia Bennett può vincere di più di Viviani?
«Sam ha già vinto di più di lui nel 2019 (13 vittorie contro le 11 del campione europeo, ndr). Avendo un treno a sua disposizione come quello che gli daremo, sulla carta dovrebbe vincere di più. Il ciclismo non è matematica e io non guardo al nome del corridore ma alle sue caratteristiche. Come con Alaphilippe: ero scettico di schierare Julian al Fiandre e di puntare alla classifica del Tour con lui perché, in teoria, un atleta di 60 kg sul pavé e nei grandi giri è al limite. Lui però ha la fortuna di avere un passato nel ciclocross, di saper guidare bene la bici e di avere un gran talento quindi è giusto che ci provi».
La vostra colonia italiana si è un po’ ristretta…
«Al tavolo però sono sempre quelli che parlano di più (ride, ndr). Credo molto in Davide Ballerini, penso che possa fare molto di più di quanto ha mostrato finora. Sono curioso di vedere Mattia Cattaneo, che farà un bel salto da un piccolo team, dovremo gestirlo bene per non fargli sentire la pressione, che inevitabilmente aumenterà. Andrea Bagioli è un giovane di cui ho sentito parlare molto bene, voglio che cresca con calma, ma se brucerà le tappe non saremo di certo noi a frenarlo. Vediamo dove arriveranno».
Alla fine del 2019 abbiamo pianto il dottor Squinzi e la dottoressa Spazzoli con cui ha lavorato alla Mapei dal 1995 al 2000.
«La notizia della loro scomparsa mi ha arrecato molto dolore. Quando ho visto le foto della dottoressa al funerale del dottore non l’ho riconosciuta, mi ha fatto male sapere che è stata sconfitta dalla stessa malattia che ho avuto io in passato. Sono state persone talmente brave, che hanno fatto del bene al mondo del ciclismo e non solo, che avremmo voluto sempre averle con noi. Ho avuto la fortuna di lavorare 6 anni insieme a loro, averli persi entrambi in un periodo così breve fa due volte male. Spero che il ciclismo italiano un giorno torni ad avere una squadra come quella a cui avevano dato vita loro, ma lo vedo difficile. Imprenditori illuminati come loro non nascono tutti i giorni, lasciano una grande mancanza».
Se fosse il presidente dell’UCI quale sarebbe il primo provvedimento che prenderebbe?
«Detto che non mi piacerebbe questo ruolo, creerei internamente una professional league gestita da un CEO che lavori per sviluppare il movimento a 360°, l’immagine, l’appeal per gli sponsor, le varie discipline. Il ciclismo è più pulito di un tempo ma per altri aspetti non ha fatto progressi ed è sovrastato da altre discipline che hanno meno storia e, dati alla mano, potenzialità di noi. Capisco che l’attuale numero 1 dell’UCI sia un politico e che invece di pensare a progetti concreti debba andare in Africa a stringere mani per prendere voti, ma per me questa sarebbe la priorità. Dobbiamo lavorare molto anche sulla sicurezza. In Belgio ci sono altri sport emergenti, che stanno prendendo piede come l’hockey su prato o il rugby. È comprensibile che i genitori preferiscano far stare i loro figli al sicuro in uno stadio e non in mezzo alla strada, con il rischio che non tornino a casa, come troppo spesso succede. Dobbiamo rendere più appetibile lo sport soprattutto ai giovani, investire sui velodromi e i circuiti protetti».
Ci svela il segreto del Wolfpack?
«Lo dice il nome. Siamo affamati e uniti. Quando perdiamo, se arrivo al bus e vedo un corridore contento mi arrabbio. Siamo pagati per vincere, non sempre si può riuscirci ma dobbiamo fare del nostro meglio per provarci ad ogni singola corsa. D’altro canto forse abbiamo vinto così tanto in questi anni che sembra quasi scontato dominare sia nelle classiche che nei grandi giri. Un giorno, quando sarò a casa tranquillo, magari mi renderò conto di cosa abbiamo combinato in questi anni».
Forse lo capirà solo quando andrà in pensione anche dal ciclismo.
«Già, al momento non ci penso ancora. Per ora ho contratti fino al 2021 con tutti gli sponsor e con alcuni c’è l’opzione di rinnovo fino al 2023. La voglia di continuare a lavorare in questo mondo non mi manca. Dal giorno della Befana la cifra della mia età è cambiata e ho iniziato a riprendermi un po’ dei tanti soldi versati in tutti questi anni allo stato belga, per il resto nulla è variato nella mia routine. Dei giorni mi sento più giovane, altri più vecchio, soprattutto se il bar chiude tardi (sorride, ndr). Per il futuro spero comunque la squadra continui, con o senza di me».
Un domani a chi vorrebbe lasciarla?
«Ad un uomo o una donna intelligente, che mi garantisca di non distruggere quello a cui ho dedicato la mia vita».
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