La Cina e il ciclismo sono un binomio di difficile comprensione. Il calendario annuale dell’UCI presenta ormai svariate corse che toccano più o meno ogni area dell’infinito territorio cinese. Eppure, vivendolo dall’interno, non sembra esserci la passione per questo sport, ma più che altro la volontà di far parte di un progetto internazionale che possa dare alle zone meno conosciute del Paese una visibilità mondiale.
Innanzitutto, c’è da dire che i cinesi non vanno in bicicletta: auto, scooter (tantissimi), taxi e bus, ma di biciclette neanche l’ombra. E il ciclismo professionistico non lo seguono e, probabilmente, non lo capiscono, ma ne sono incredibilmente attratti, altrimenti non si spiegherebbero tutte le corse cinesi e, in generale, nel continente asiatico.
Il Tour of Guangxi è la corsa di gran lunga più importante del calendario cinese, perché è WorldTour, e di conseguenza ci sono le formazioni di massima divisione (quest’anno 15 su 18), perché è l’ultima corsa di spessore dell’anno e perché dietro c’è un investimento di denaro da capogiro. Esiste solo da tre anni, ha sostituito il similare Tour of Beijing, ma fin da subito è entrato a far parte della ristretta cerchia di appuntamenti WorldTour.
Se vi chiedete il perché la risposta è semplice: la corsa è firmata dal colosso Wanda Sports, il cui capo, Wang Jianlin, è stato l’uomo più ricco di Cina ed è tutt’ora uno dei più influenti.
L’intuizione di portare un evento internazionale in una regione come il Guangxi - che non si può definire certo turistica se non per l’affascinante città di Guilin, con la sua combinazione di fiumi, laghi e montagne - ha però spinto migliaia di persone a riversarsi sulle strade per assistere alla gara, ma soprattutto, per entrare in contatto con il mondo occidentale che per una settimana si è spostato in questa regione meridionale della Cina.
Solo vivendo l’esperienza da dietro le quinte ci si rende conto dell’incredibile mitizzazione dell’uomo occidentale. Molti abitanti del Guangxi, probabilmente, non si erano mai trovati a contatto con europei o americani, e l’affetto che hanno dimostrato ai corridori, ma anche ad addetti ai lavori e giornalisti, ne sono la piena conferma. Foto, selfie, strette di mano con chiunque fosse diverso da loro; potevi essere Pascal Ackermann o Fernando Gaviria, o l’ultimo dei gregari, oppure l’inviato di tuttoBICI, a loro importava poco, bastava avere un cimelio o un ricordo di essere entrati in contatto con un mondo diverso dal loro.
Con così tanto entusiasmo, l’organizzazione della corsa non poteva che essere di primo livello. Fermo restando che il background culturale e politico, come si sa, è ben lontano dal nostro, ha sorpreso il fatto che ogni città che ospitava la partenza o arrivo di tappa, veniva praticamente blindata, obbligando magari anche chi ne aveva meno voglia a venire alla corsa (cosa che in Europa non potrebbe mai succedere). Le scuole avevano organizzato una bellissima cornice di bambini che rendesse più gioiosa l’atmosfera al villaggio di partenza e arrivo, cercando di far sentire il calore ai corridori, molti dei quali avevano già staccato la spina dopo una stagione dispendiosa. Non sono mancate nemmeno le coreografie di balli a tradizione cinese, come le danze del drago e del leone, al fine di intrattenere i tifosi in attesa dell’arrivo di tappa. Tantissimi i volontari e, a questo proposito, ha colpito il fatto che in tutte le tappe, che fossero di 140 o 210 chilometri, non c’era un tratto di percorso in cui non fossero presenti dei volontari a supervisionare, circa ogni 100 metri, anche nelle zone più deserte, in strade che magari passavano in mezzo a piantagioni di té o riso. Le varie aree, podio, vip e media, erano ben delimitate e la ferrea disciplina cinese non permetteva eccezioni. E poi c’erano gli hotel, di altissimo livello, sia per i corridori che addetti ai lavori, che potrebbero rappresentare quel quid in più per coloro che fossero indecisi se tornare negli anni a venire.
LA CORSA. In questo scenario atipico è andato in scena l’ultimo atto della grande stagione ciclistica. Inutile negare che dei 120 corridori al via in pochi arrivavano con le motivazioni a mille, perlopiù qualche giovane e quelli ancora senza contratto o chiamati a conquistare punti pesanti per il futuro della loro squadra, dopo una stagione che li ha visti macinare decine di migliaia di chilometri in giro per il mondo. A conquistare la maglia rossa finale è stato Enric Mas, che si è aggiudicato l’unica tappa con arrivo in salita, nonché l’unica ad aver creato un po’ di selezione. Infatti, il Tour of Guangxi è stato perlopiù un festival dei velocisti con Fernando Gaviria, tornato nelle migliori condizioni dopo il lungo infortunio al ginocchio, e Pascal Ackermann, che si sono spartiti il bottino con due vittorie a testa, con l’affermazione nel mezzo del redivivo Daniel McLay.
Si partiva da Beihai, città costiera che affaccia sul Golfo di Beibu, per poi risalire verso Qinzhou e l’enorme Nanning, che coi suoi 7,4 milioni di abitanti è il capoluogo di regione del Guangxi, per poi arrivare a Liuzhou e Guilin nelle ultime due frazioni. Il percorso era esattamente lo stesso del 2018, con la differenza che l’anno passato i corridori si erano presi la pioggia per tutta la settimana, mentre quest’anno sono stati costantemente accompagnati da sole e caldo (30 gradi), con l’unica eccezione rappresentata dall’ultimo giorno di Guilin, in cui i corridori si son presi qualche goccia di pioggia, giusto per chiudere bagnati il loro 2019. L’unico arrivo in salita ha visto gli atleti arrivare nell’area panoramica di Nongla, dove li attendeva il maestoso tempio di Putuo, anche se rispetto al 2018, quando vinse Gianni Moscon, la scalata era più lunga di 1.400 metri.
Come detto, Mas si è aggiudicato con discreta facilità la tappa più complicata, anticipando il colombiano Daniel Martinez: «Chiudere la stagione in questo modo è davvero bello - ha spiegato il maiorchino -. Era la mia ultima gara con la Deceuninck-QuickStep, andare via mi rende un po’ triste, ma mi attende l’avventura in Movistar, dove sicuramente il focus saranno le corse a tappe. Purtroppo, quest’anno le cose non sono andate come avrei voluto, alcuni guai fisici e il fatto di dover sempre spalleggiare Alaphilippe non mi hanno permesso di vincere fino a questo momento. In ogni caso meglio tardi che mai, posso andare in vacanza con un morale molto alto».
Al terzo posto si è piazzato Diego Rosa, autore di un finale di stagione di grande spessore e anche lui al passo d’addio con il Team Ineos: «Mi dà grande morale terminare la stagione con un podio in una corsa WorldTour, soprattutto in vista della prossima stagione in maglia Arkéa-Samsic. Il livello qui non è così basso come sembra, anzi, siamo andati forte tutta la settimana. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere, anche solo una tappa, perché la vittoria sinceramente mi manca molto. Ma per ora può andare bene così».
Tra gli italiani da sottolineare anche la buona prestazione di Davide Villella, alla fine nono, e Matteo Trentin, che ha colto quattro terzi posti in sei tappe. Curiosamente, anche il lombardo e il trentino cambieranno squadra nel 2020, con il primo che andrà con Mas alla Movistar e il secondo alla CCC.
Il Tour of Guangxi è stata la degna conclusione di una stagione ciclistica ricca di spunti, in uno scenario atipico di uno sport globalizzato come nessun altro. Quest’anno poi, grazie alle immagini offerte da Velon, anche al di fuori della Cina gli appassionati hanno potuto seguire per la prima volta la corsa in diretta, prendendo confidenza con un appuntamento che con gli anni spera di entrare nel cuore dei tifosi e diventare un autentico classico di fine stagione.
da tuttoBICI di novembre
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