Caro Direttore,
quando si affrontano temi come quello che giusto il Giorno dei Defunti ha posto il Delegato alla Sicurezza dell' A.C.C.P.I. all'attenzione di chi abbia un minimo di sensibilità, e di cuore per il ciclismo, sono dell'avviso che - prima di esprimersi - occorra attentamente interrogarsi e, se possibile, non lasciare che le parole sfuggano al controllo di una riflessione raziocinante. Nel caso di giovani vite stroncate da un'improvvida superficialità organizzativa, che spalanca le porte al dramma o addirittura, e peggio, di familiari e amici "morti ammazzati" sulla strada, ormai una sorta di quotidiano luogo del delitto, l'emotività avrebbe infatti... sconfinate praterie per dare sfogo al risentimento e alla rabbia, inevitabili compagne del dolore in siffatte drammatiche circostanze.
E' del tutto condivisibile quanto ha scritto, accoratamente, Marco Cavorso, sia nella funzione istituzionale (uso volutamente questo termine, emblematico per simili fattispecie) che riveste in seno all'A.C.C.P.I., che soprattutto come padre e vittima - vivente e permanente - di una condotta che, a livello normativo, attualmente ha preso nome di omicidio stradale. Dovrebbe riporsi fiducia nei Tribunali e nei Magistrati che, a vario titolo, esercitano funzioni giurisdizionali, sia in fase d'indagini e di formulazione dell'accusa, che nell'ancora più delicata fase del Giudizio, allorchè si è chiamati a valutare la fondatezza della pretesa punitiva dello Stato. Questa, e non altro, è infatti la funzione del processo penale.
Una volta accertato e statuito che un figlio, un fratello, un padre, sia stato ammazzato, colposamente, e dunque per negligenza - imperizia - imprudenza, ovvero per una sconsiderata condotta di guida o per quant'altro valga a connotare un soggetto come delinquente stradale, questa "razza" criminosa dovrebbe risponderne senza se e senza ma.
L'ordinamento processual-penalistico, e prima ancora il buon senso dico io, prevedono che ad un precetto violato, corrisponda una sanzione-pena da eseguirsi ed espiarsi. Appare tutto così semplice, da risultare quasi banale: quando, poi, hai letteralmente sbattuta in faccia una frase come "la Legge è uguale per tutti", oltre al disposto Costituzionale per cui "... è amministrata in nome del popolo Italiano", che altro si puo' andare cercando? Nessuno, mai, a fronte di un simile "apparato" normativo e procedimentale , dovrebbe... invocare giustizia. Per il Matteo, per il Marco, per il Giovanni, per i tanti, troppi, nomi che ora i loro cari, e noi tutti, vediamo ormai troppo frequentemente scritti solo su di una Tomba o di una Croce.
Sconsolatamente, e rabbiosamente, dico che non può e non deve essere così! Semmai esista, è una rabbia razionale e avvalorata dalla professione che da decenni esercito. Mi sento di affermare, senza tema di smentite che non siano meri e patetici esercizi di stile, o ancora più deprimenti difese corporative e di casta, che nel processo penale la parte offesa, ciclista accoppato (o menomato, ipotesi a volte ancora peggiore) o anziano rapinato e malmenato, minore o donna oggetto di maltrattamenti o violenze, e via dicendo di simili nefandezze, sia un soggetto processuale figlio di un dio minore. Si corre forse il rischio di essere irriguardosi nel dire che è umiliante ed inammissibile, oltre che indegno di un Paese che voglia continuare a dirsi civile? Se così fosse, francamente me ne frego. Cio' che conta, alla fin fine, è dire senza remore cio' che si pensa. Per una migliore quotidianità di vita, anche nel Ciclismo.