Verona, via Mantovana, stazione di servizio Eni. Lei al bancone, alla cassa, dovunque. Lui alle pompe, alla cassa, dovunque. Si danno il cambio, come in una cronocoppie, come in un Trofeo Baracchi. I fratelli Pietropolli: lei è Barbara, lui Daniele. Quel Daniele Pietropolli, professionista dal 2003 al 2013. Facciamo un pieno di ciclismo. Il suo ciclismo.
Daniele, la corsa più dura?
“La Caldes-Stelvio, ventesima e penultima tappa del Giro d’Italia del 2012. Duecentododici chilometri con Tonale, Aprica, Mortirolo e Stelvio. Vinse il belga De Gendt. Io subito nel gruppetto. Per arrivare, per sopravvivere”.
La più pazza?
“In Germania, nella Foresta Nera, un circuito con quattro chilometri di salita e quattro di discesa, da ripetere non so quante volte. Mi piazzai”.
La più bella?
“Il Trofeo Laigueglia. Non saprei dire perché, un solo perché, ma molti perché del suo fascino irresistibile. Perché era la prima corsa della stagione, e si partiva pieni di speranze e sogni. Perché era una corsa che, a volte, anticipava la primavera, che è la stagione delle speranze e dei sogni. Perché ha un percorso bellissimo, dal mare alle montagne e dalle montagne al mare. Perché nel 2011 riuscii a conquistarla”.
Il corridore più forte?
“Alberto Contador: quando andava piano, arrivava fra i primi dieci. E Davide Rebellin: era sempre presente, sempre davanti, sempre in corsa. Contador era un inno al talento, Rebellin un elogio all’allenamento. Contador era il simbolo della classe, Rebellin la bandiera della tenacia”.
Il più simpatico?
“Michele Scarponi. Correvamo insieme da dilettanti nella Zalf, nel 2000 e nel 2001, e da professionisti nella Lampre, dal 2011 al 2013. Che andasse forte o piano, che vincesse o perdesse, era sempre così: allegro, divertente, leggero. Fu lui a soprannominarmi ‘Peterchicken’, la traduzione letterale di Pietropolli in inglese”.
Il tecnico più importante?
“Giovanni Fidanza, alla Lpr, nel 2008 e nel 2009. Preparato, competente, preciso. Sapeva tutto, non solo della corsa ma anche della bicicletta, cioè non solo dal punto di vista tattico ma anche tecnico. Con lui, grazie a lui, mi sentivo sicuro: non c’era dettaglio trascurato o dimenticato”.
Il migliore gregario?
“Strano a dirsi, Danilo Di Luca. Nel Giro della Provincia di Reggio Calabria mi aiutava tirandomi le volate. E grazie a lui vinsi una tappa e la classifica finale”.
Il migliore capitano?
“Ancora lui, Di Luca. Senza entrare nel merito delle questioni sul doping, con me Danilo si comportò sempre da vero signore. Aveva una sola parola e la manteneva”.
Mai arrivato ultimo?
“Mai. Nonostante le salite, le crisi, le cotte, sono sempre riuscito a mettere qualcuno fra me e il fondo della corsa”.
Mai salito sul camion-scopa?
“Mai. Ho sempre cercato di finire le corse, anche al Fiandre, anche alla Freccia, anche alla Liegi, anche all’Amstel. A proposito di Amstel Gold Race, quella del 2012: in testa alla corsa, chiudo su Freire in fuga, piloto Damiano Cunego sullo strappo finale di Valkenburg, ma Damiano cade a trecento metri dalla linea, a un passo dalla vittoria”.
Una cotta?
“La Cuneo-Pinerolo, decima tappa del Giro d’Italia del 2009, sessant’anni dopo l’impresa di Fausto Coppi. Duecentosessantadue chilometri e cinque montagne: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere. Sulla prima salita ero già in fondo, con Mark Cavendish. Una giornata terribile: avevo la nausea, non riuscivo a mangiare né a bere, solo un paio di lattine di Coca-Cola. Si andava a tutta sul piano, alla morte in discesa e con il proprio passo – cioè a tutta e alla morte – in salita. Sette ore stringendo i denti fino a consumarli. Ma dentro il tempo massimo”.
Un rimpianto?
“Non avere mai partecipato al Tour de France. A dire la verità, non ho mai partecipato neppure alla Parigi-Roubaix, ma lì avrei seriamente rischiato di salire sul camion-scopa”.
Un nemico?
“Il caldo-umido, l’afa, l’aria sudata. In un Giro del Portogallo, avversato anche dagli incendi, correvamo a una temperatura di 45 gradi, ma era un calore secco, non liquido”.
Daniele, il ciclismo?
“Gli anni più belli della mia vita”.
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