Rifacendo un minimo di ordine, sul finire della stagione: il Giro a Carapaz, Ecuador, il Tour a Bernal, Colombia, la Vuelta a Roglic, Slovenia. Possiamo prendere tutto e mettere via come se niente fosse? Certo che si può. Ma se abbiamo ancora il gusto di scendere un po’ dalla superficie verso un minimo di profondità, subito cambia quello che vediamo: non solo coincidenze, ma segni e segnali parecchio forti.
Come racconta in modo sublime il vecchio Boris Pasternak nel Dottor Zivago, non è possibile all’occhio umano cogliere il momento in cui la foresta cambia colore per il cambio di stagione. Il cambio avviene senza che noi possiamo percepirlo, ce ne accorgiamo a cose fatte. Un giorno, la foresta che vedevamo verde ci si ripresenta lentamente gialla, rossa, marrone, fino a diventare spoglia. L’impalpabile passaggio del tempo, questo è ciò che ci sfugge. Torno doverosamente al tema: noi non ci siamo accorti in quale preciso momento è avvenuto il cambio di stagione, ma indubbiamente ci ritroviamo davanti a un evidente e inequivocabile cambio di stagione. Fino a un attimo fa guardavamo le nostre certezze, i Nibali, i Froome, i Thomas, improvvisamente ci ritroviamo davanti a una foresta di tutt’altri colori: Carapaz, Bernal, Roglic.
Non è un cambio banale e secondario. Oltre ai volti dei singoli dominatori di questa nuova stagione, cambia pure l’intera geopolitica. Non è lontanissimo il passato in cui Slovenia, Ecuador e Colombia erano tocchi di semplice colore, di simpatico folklore, niente di più, in mezzo al gruppo. Ai Mondiali si vedevano queste maglie alla partenza, magari nelle prime fughe pittoresche, molto più frequentemente subito staccate dal gruppo, impegnate in una corsa a sé, di pura rappresentanza, tanti applausi d’incoraggiamento e tanta simpatica compassione. Anche qui: il passaggio di stagione nessuno l’ha fermato in una foto, ma l’intero film ci presenta un finale incredibile: le nazioni del folklore oggi comandano in tutti i grandi giri.
A noi abitanti del vecchio mondo converrà abituarci in fretta: la nuova carta geografica è molto più vasta e molto diversa. Abbiamo un mappamondo sul quale Paesi lontani e marginali si ritrovano improvvisamente al centro della storia e della geografia. Inevitabilmente, anche al centro dei grandi mercati e delle grandi cifre. Non a caso, i ricconi dell’ambiente è lì che adesso vanno a pescare per fare i loro squadroni, vedi Ineos che vira nel giro di poche stagioni dalle accoppiate anglofone Wiggins-Froome, Froome-Thomas, alla nuova formula Bernal-Carapaz. E così via.
In tutto questo, non possiamo non chiederci cosa vediamo improvvisamente del cambio di stagione nostro, di noi Italia. Pochi colori, molti dolori. La nostra foresta, dopo una lunga epoca di verde lussureggiante, ci appare oggi decisamente spoglia e rinsecchita. Possiamo pure pensare che Nibali sia eterno e immarcescibile, ma chi ha occhi aperti e curiosi ha intuito già quest’anno che non è così. Anche la vecchia quercia, la più bella e la più forte delle nostre, perde fogliame e comincia a ingiallire. Sarà magari un autunno meraviglioso, ma resta pur sempre un finale. Per il resto, paesaggio spoglio e disadorno. Con un grande senso di arido e di freddo.
Si può sempre sperare che mentre noi vediamo questa foresta malinconicamente grigia, già l’invisibile scorrere del tempo stia facendo germogliare piante nuove, un giorno belle e forti come quelle che non abbiamo più. Ma non ne sono sicuro, questa volta. A quanto pare, non basterà una stagione per ritrovarci davanti la nuova foresta. Non credo proprio che già la prossima primavera ce la presenterà colorata e rigogliosa come vorremmo. Mi sa tanto che dovrà passare molto più tempo. Poche illusioni: sarà un lungo, interminabile inverno.