
“La prima bici a cinque anni. Era una bici pesante e, soprattutto, grande, più grande di me, non arrivavo ai pedali neanche in punta di piedi. Me l’aveva regalata mio padre. E me l’aveva presa così grande perché, crescendo, mi andasse ancora bene” (Eugenio Berzin).
“La prima bici a cinque anni. Portava il mio cognome: Anzà. Perché mio padre aveva un negozio e un’officina di biciclette, e ne fabbricava con il proprio marchio. Per me quell’Anzà scritto sul telaio era un grande privilegio e già una grande responsabilità” (Santo Anzà).
“La mia prima bici me la dettero i fratelli Maggini, Luciano e Sergio, miei vicini di casa. Forse speravano che potessi diventare forte come loro” (Giuseppe Grassi).
“Le corse venivano organizzate dallo Stato. Tutto lo sport era organizzato dallo Stato. Così, fin da bambini, già a scuola, si faceva sport. Il sistema era buono, il modo forse no” (Eugenio Berzin).
“Per il ciclismo dovetti emigrare dalla Sicilia alla Toscana. Il viaggio lo feci in macchina con i miei genitori. Mi lasciarono e se ne tornarono. Nostalgia di casa? Un po’. Però poi c’erano gli allenamenti e le corse, e la nostalgia non si sentiva più” (Santo Anzà).
“La prima corsa arrivai terzo, Bitossi secondo, non mi ricordo più chi primo” (Giuseppe Grassi).
“La prima corsa arrivai terzo. Ma eravamo in tre” (Santo Anzà).
“Da piccolo non facevo che cadere dalla bici. Sarà stata che era grande, troppo grande, sarà stato che ero piccolo, troppo piccolo, sarà che nessuno mi aveva spiegato come fare con le gabbiette dei pedali. Ma il risultato è che spesso finivo dentro i fossi” (Eugenio Berzin).
“Fu Bitossi a farmi passare professionista. Poi sempre con lui, nella Filotex” (Giuseppe Grassi).
“Allenamenti? Li decideva Bitossi” (Giuseppe Grassi).
“Una salita come test? La sceglieva Bitossi” (Giuseppe Grassi)
“Ultimo? Mai” (Eugenio Berzin).
“Fuori tempo massimo? Mai” (Giuseppe Grassi).
“Cotte? Spesso” (Santo Anzà).
“Tapponi alpini, due ali di folla, incitamenti. E una nuvola di fritto dalle grigliate. E una nuvola di alcol da damigiane, bottiglie e lattine. Non vedevo l’ora di uscirne” (Eugenio Berzin).
“Tapponi alpini, due ali di folla, incitamenti. Ma io non vedevo l’ora di essere in albergo e mettermi a dormire” (Santo Anzà).
“Dopo dieci giorni di corsa, le gambe cominciavano a dolere, reclamare, lamentarsi, gridare, indurirsi, scioperare” (Santo Anzà).
“Correre? Una questione di gambe, ma anche di cuore e, soprattutto, di testa. E di qualche innocente incentivo. A Marco Giovannetti, golosissimo, per incoraggiarlo ogni tanto gli allungavo un Pocket Coffee dall’ammiraglia” (Roberto Rempi).
“Due vittorie in carriera, a Mirandola e in una prova del Trofeo Cougnet. Ma quei giorni Bitossi non c’era” (Giuseppe Grassi).
“Anche stayer. Era facile: bastava mettersi dietro la moto e pedalare” (Giuseppe Grassi).
“Meglio da gregario che da capitano. Perché il capitano, se non vince, deve poi risponderne ai gregari che hanno lavorato tutto il giorno per lui” (Santo Anzà).
Ricordi e racconti, l’altra sera, a Carmignano (Prato), in un incontro organizzato dall’amministrazione comunale in occasione del Giro d’Italia.
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