C’è un corridore italiano che ha vinto le ultime due Roubaix. Come? Cosa? Sicuro, è italiano, e ha vinto le ultime due Roubaix, arrivando a braccia alzate. Perché aveva saputo dalla radio della vittoria del suo capitano. Nel 2017, quando correva per la Bmc e il suo capitano era Greg Van Avermaet. E un anno fa, quando ha ritrovato Peter Sagan alla Bora e lo ha accompagnato nella sua impresa. Anche oggi partiranno assieme per l’inferno del nord. Lui si chiama Daniel Oss, è nato in Valsugana ma vive a Torbole, sul Garda. Quando non è in giro per il mondo a correre in bicicletta, cioè abbastanza di rado. Se avete in mente il corridore classico, ascetico e tendenzialmente anoressico, Oss è una felice anomalia.
Si definisce un ciclista professionista grunge. Sarebbe?
Però è un corridore.
«Un po’ stufo dell’immagine eroica, di tutto quello che si definisce d’altri tempi. Il corridore che va a dormire presto e mangia il giusto mi intristisce un po’. Posso essere professionale anche se mangio una cioccolata o se decido di bermi una birra ogni tanto».
Cerco di correre da teppista e con cafoneria dal 2009: lo ha scritto lei.
«Ogni tanto sono ispirato, non sempre. Scrivere non è la cosa che mi viene più naturale, però mi piace sdrammatizzare».
Non a tutti i suoi colleghi.
«Io posso permettermelo, se sei un campione hai l’obbligo di fare molte cose in più, di essere più attento. Soprattutto per gli scalatori, per quelli che devono vincere i grandi giri, è più difficile far uscire una certa personalità. Fanno una vita molto sacrificata».
Vincere ed essere un’anomalia è impossibile?
«Beh no. C’è Peter. Sagan per me rappresenta il perfetto stereotipo del ciclista moderno. Però lui è un genio, lui è sopra le parti. Peter non si limita vincere, dà qualcosa in più a tutti. Agli spettatori, ai giornalisti. Ha personalità, carisma. E’ emozionante. Non c’entrano le vittorie, quelle sono quasi uguali per tutti».
Voi avete corso assieme anche da ragazzi. Lo ha trovato cambiato?
«No, mai, Peter è così come lo vedi, quella è la figata. La popolarità ti fa cambiare, incontrare ogni giorno cento persone che vogliono farsi una foto con te pesa, e lui questo deve metabolizzarlo ogni giorno. Ma dà qualcosa in più anche quando perde, è un esempio per i giovani. Sagan ha cambiato il ciclismo. Ha tirato una riga: dopo di lui il ciclismo è diventato contemporaneo».
Ha detto di avere un solo rimpianto.
«Ero al mio quinto Tour de France, volevo fermarmi a bere una birra in uno stand di tifosi lungo l’Alpe d’Huez. Non l’ho fatto e ancora oggi ci penso».
Lei è un gregario. Non c’è niente di più anacronistico del gregario in realtà.
«Quando ho cominciato a correre non lo sapevo, vincevo sempre. Sogni di vincere, tanto, poi capisci i tuoi limiti, trovi un ruolo. Alla fine non ho rimpianti, so che vincere un Fiandre è difficile».
E il Fiandre la corsa più corsa di tutte?
«Per un sacco di cose: chi arriva nei primi cinquanta è un eroe, e chi fa certi tempi su quei muri è degno del massimo rispetto, è la corsa dove chi vince è il più grande. E poi è l’ambiente, sono tutti fuori di testa, un popolo intero che impazzisce per un evento enorme, forse capita solo con la maratona di New York. Dovresti vedere come ti guardano i bambini».
E la Roubaix? Questa è la decima per lei.
«Una volta ero mezzo malato, non volevo neanche correre. Ogni anno è diverso, all’inizio era un’emozione più violenta, ora me la tengo abbastanza dentro, sono più analitico. La mattina sono già nel mio tunnel: la colazione, il numero da attaccare, le scarpe, salire sul bus, l’ultimo ripasso dei tratti pavé, è una cosa più professionale. Poi quando si corre è diverso, anche l’anno scorso l’emozione è esplosa quando ho sentito che Peter aveva vinto. Il mio ruolo è importante, ma non solo in corsa, anche per farci due risate a cena, per un consiglio in più. Siamo in connessione, si parte con l’idea che sarà una giornata dura, sai che arriverai morto, che darai tutto, che dovrai difendere e attaccare».
Ha detto che gode ad allenarsi: è matto?
«Ero ubriaco forse... No, dai, alla fine mi piace allenarmi, apprezzo anche l’aspetto tecnologico, i watt, i record».
E questa storia della propensione all’imprenditoria?
«E’ vera. Ho sempre visto il ciclismo come una parte della vita, so che non sarà per sempre, non so se sarà il mio futuro. Per cui leggo libri, forum, leggo Il Sole 24 Ore e mi piace. Qualche anno fa con una società ho costruito dei villaggi turistici a Zanzibar, stiamo lavorando bene».
Poi c’è il #justride.
«Un giorno ero stanco di pedalare e di fare gare, quindi ho deciso di cambiare, di pedalare solo per me stesso. Dopo il Giro d’Italia mi sono organizzato e mi sono inventato un altro mezzo Giro d’Italia. Che poi è una mezza vacanza, un modo di prendersi una pausa per ritrovarsi, per ricaricarsi, per ritrovare quello che ti piaceva da bambino. Musica a manetta, bicicletta, un gattino di pelouche e tanti incontri lungo la strada».
La musica che posto ha?
«Mi fa compagnia, alle medie avevo preso lezioni di basso poi l’avevo venduto. Da due o tre anni ho ripreso, ma da autodidatta. Non sono bravo».
Scommetto che ha i vinili.
«Non sono fissato ma li apprezzo. Il fruscio ha il suo fascino».
Quando si allena ascolta la musica?
«Quando sono in una zona sicura sì, con una sola cuffietta. Se piove ascolto roba pesante, così capisco che c’è qualcuno che è messo peggio di me, se c’è il sole invece va bene tutto, anche i Beach Boys».
Sagan canta anche in corsa, è vero?
«Più che altro parla, veramente non sta mai zitto. Ma fa bene, alle fine le corse sono noiose, lui ci tiene allegri».