Spiega: “La volata è tantissime cose in pochissimo tempo”. Elenca: “Adrenalina e acido lattico. Colpo d’occhio e forza di gambe. Istinto e natura. Avventura e, a volte, disavventura. Coraggio ed esperienza. Organizzarsi, con la squadra, o arrangiarsi, da solo. Battezzare la ruota giusta e saltare fuori al momento giusto”.
Giovanni Lonardi è qui, al Tour of Antalya, per vedere come funziona. Il ciclismo, le corse, le volate. Ieri, alla prima delle quattro tappe, tanto per cominciare, quarto. Racconta: “Ai meno 10, Damiano Cima e io siamo andati davanti. Ai meno 5, dove la strada si faceva più tortuosa, siamo andati ancora più davanti. Ai meno 2, siamo riusciti a evitare una caduta. A meno 1, c’erano due tornanti e un pezzo in pavé, ce lo avevano detto, e siamo stati attenti. Ai meno 700 controllavo la situazione. Ai -250, mi pare, è partito lungo Mathieu Van der Poel. Non gli ero alla ruota secco, poi si è inserito uno, poi un altro, insomma ero quarto o quinto, e quinto sono rimasto”.
Lonardi, 22 di dorsale e di anni, è veronese di Marano di Valpolicella, patria di vino e ciclismo. Su tremila abitanti, tre corridori da serie A (il conteggio, sui litri di vini, un’altra volta). In gruppo, con lui, Davide Formolo ed Edoardo Zardini. Confessa: “Giocavo a calcio, attaccante, fascia destra, qualche gol. Un giorno mio zio Adolfo, che ai suoi tempi in pista correva, e perdeva, anche contro Francesco Moser, mi portò a vedere una corsa. Ne rimasi colpito. La gente, il clima, l’ambiente”. Le biciclette. “La mia prima bici una Chesini, da corsa. L’acquistammo da un meccanico amico di famiglia. Avevo 14 anni. Tardi”.
Mai abbastanza tardi. Scava: “La prima corsa da allievo, a Bolgare, in provincia di Trento. Mi ritirai. La seconda la finii. Poi, ancora da allievo, la prima vittoria, vicino a Venezia, arrivammo in tre, della stessa squadra, con la stessa maglia, ci mettemmo d’accordo, e vinsi io”. Tante vittorie, anche da under 23. Stabilisce: “La più bella al Giro d’Italia 2018, la tappa di Forlì. La più bella perché c’erano tanti avversari, uno più forte dell’altro, tutti in una spanna”. E così il professionismo. Certifica: “Matteotti e Bernocchi già nel 2017, con la maglia della nazionale, guidata da Amadori. Non andai male, ma neanche bene. E da quest’anno con la Nippo-Vini Fantini-Faizané: l’esordio alla Valenciana, domenica il Laigueglia, adesso qui”.
Da piccolo, Lonardi non sapeva che cosa avrebbe voluto fare da grande. Giura: “Finché è arrivata la bici. Intanto, non si sa mai, mi sono diplomato in elettronica. Solo due anni fa ho capito che il ciclismo sarebbe potuto diventare un lavoro. Lavoro e sempre passione. Passione sentimentale, fatta di piacere, svago, libertà, e passione fisica. E mi sono impegnato di più”. Un impegnato quotidiano. Specifica: “L’allenamento. Un po’ per la salita: posso e devo migliorare. E un po’ per la volata: la mia preferita non è a gruppo compatto, ma selezionato, magari da un percorso ondulato”. Punti di riferimento non ne ha. Puntualizza: “Tom Boonen. Un’eccezione. Da allievo e junior, davanti alla tv, nelle classiche del nord”. Sogni, invece, tanti. Comincia: “La Milano-Sanremo… le classiche del nord… anche una tappa al Giro d’Italia…”.
Ecco Lonardi, che ha cominciato il 2019 alla fine del novembre 2018, che solo in gennaio ha ruminato tremila chilometri, che tiene al Milan da quando è nato. Chiude: “Sì, la volata è tantissime cose in pochissimo tempo. Sono qui per vedere come funziona, per imparare, per vincere, per imparare a vincere. Non è vero che tutti i velocisti siano matti, anche se a 70 all’ora, tutti insieme, rasenti alle transenne, è un po’ roba da matti. Però, se freni, meglio cambiare specialità. E se hai paura, meglio cambiare sport”.
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